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Fulvio Tomizza. “Materada” (1960) 
La trilogia istriana a cura di Marisa Cecchetti/ 1.
10 Dicembre 2013
 

Fulvio Tomizza

Materada

Bompiani, 2000 2ª ed., pp. 186, € 7,50

 

Divenuto ormai un classico della letteratura di frontiera, Materada (1960) è il primo romanzo della trilogia istriana di Fulvio Tomizza. Seguono, nel 1963, La ragazza di Petrovia e nel 1966 Il bosco di acacie. Nato nel 1935 a Materada, nel comune di Umago, dopo il memorandum di Londra nel ’54, che assegnava la sua zona, la zona B, alla Yugoslavia, davanti alla scelta tra Italia e Yugoslavia, Tomizza scelse l’Italia e si trasferì a Trieste.

L’abbandono delle terre istriane era iniziato fin da quando i partigiani yugoslavi nel ’45 avevano marciato sull’Istria diffondendo paura, in un clima di tensione, di vendette sommarie, di terrore delle foibe.

Materada scolpisce a tinte forti la figura di Barba Zio, padrone di terre che fa lavorare ai nipoti ed alle loro famiglie, trattati alla stregua di servi. Vero è che ha intestato a loro un podere, quello dei Chersi, che lui ha ottenuto a prezzo di fallimento, ma con la riforma agraria quella terra viene data ai coloni. I nipoti stringono un pugno di mosche.

Il vecchio è molto malato e sembra volersene andare da un momento all’altro, per questo i nipoti vorrebbero sapere se ha fatto testamento, se è stato deciso qualcosa a loro vantaggio, soprattutto perché il vecchio zio ha un figlio in città a cui non è mai interessato il lavoro dei campi, ma non disinteressato ai soldi ed alla proprietà.

Il vecchio però sembra immortale e non vuol saperne di lasciare la terra ai nipoti che ci hanno speso le loro giornate e le loro fatiche, allora comincia una guerra logorante in famiglia, perché chi ha lavorato pretende il suo e chi possiede non molla. L’esasperazione porta i giovani nuclei familiari a prendere decisioni impensate e poi ad abbandonare le terre che hanno curato ed amato.

La lotta scende dentro le persone, divise tra l’accettazione del nuovo regime e l’abbandono del loro tetto, delle loro radici e di un passato che è la loro vita. In paese aumenta il numero delle partenze. Con la speranza di assicurare un futuro migliore ai figli, le famiglie se ne vanno con le loro masserizie su un camion, fino oltre confine. C’è atmosfera di smobilitazione, gli incontri nei luoghi pubblici si caricano già di rimpianto: «Ecco che tutti partivano. Alla sera si parlava con un amico all’osteria -non si parlava d’altro a quel tempo- e lui che diceva sempre “morire sì ma a casa mia” già lo trovavi cambiato, già un po’ in forse anche lui, e la mattina dopo sapevi che era andato a Umago a presentare la domanda di opzione».

Se ne vanno con la certezza che famiglie slave già adocchiano le loro case, che useranno le cose che sono loro appartenute. La perdita della propria terra, della casa, degli oggetti stessi, lo sradicamento da un contesto noto e familiare, è l’inizio di una spersonalizzazione, di una perdita di identità, di una lacerazione che sarò difficile rimarginare.

Tomizza vive il dramma dell’esule sulla sua pelle, per questo Materada, come tutta la trilogia istriana, è un crescendo di struggente nostalgia, un canto d’addio. Ma alla gente di Materada rimane la dignità anche nella tragedia, così si trovano tutti insieme a cantar messa, anche se ormai il prete non c’è più, e vanno in processione a salutare i loro morti nel cimitero che rimarrà abbandonato.

Chi passava all’Italia era accolto nei campi profughi e di lì cominciava lentamente a riorganizzare le propria vita, non immune da giudizi critici di tanta gente, che in un periodo così difficile come il secondo dopoguerra mal tollerava le attenzioni concesse ai profughi. Atteggiamento di rifiuto mai sopito, con sfumature che cambiano nel tempo, fondamentalmente contenente la paura nei confronti dell’altro e di ciò che l’altro può sottrarci, a danno del nostro lavoro, della nostra casa, dei nostri stessi diritti, con chiusura totale alla possibilità di crescita dovuta al contatto ed alla conoscenza.

 

1. (segue)


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