Almeno fino alla metà degli anni ’90, il turismo di massa all inclusive praticamente non esisteva in Giamaica; solo gli Inaccessibili potevano permettersi un pacchetto tuttocompreso, volo, alloggio di lusso, e mangiare e bere da morirci sopra, stile Conte Tacchia; dentro Super Hotels quali lo “Swept Away”, che, per l’appunto, fa parte della catena dei Super Clubs di John Issa, il Paperon de' Berlusconi di stirpe siriana trapiantato in Giamaica, il quale, oltre a possedere decine di albergoni sparsi lungo l’isola, detiene anche le proprietà del Gleaner, la prima testata nazionale, e di altri colossi a livello alimentare e assicurativo.
Quelle che vanno allo “Swept Away”, sono coppie “per bene”.
Quelle “per male”, dal canto loro, si rifugiano da sempre all’“Hedonism II”, comunque parte della famiglia Issa. Primo hotel nei Caraibi a praticare il naturismo, la libertà sessuale e gli scambi di coppie, oltre a varianti sul tema, tipo matrimoni nudisti, e via di questo passo, sfida le leggi puritane dell’isola, le quali proibiscono la nudità pubblica su spiagge e parchi, ma ovviamente non sono applicabili all’interno dei sancta sanctorum privati dei pezzi grossi.
Ma noi, no, noi no, proprio non potevamo permettercelo, perché allora gli alti costi di manutenzione e la finanza speculativa, non avevano ancora prosciugato i loro introiti, costringendo solo in un secondo tempo gli altezzosi proprietari ad aprire i cancelli a noi cafoni, per non finire sul lastrico.
07 Agosto 1990 – il Giro del Mondo in 80 ore
Il primo giro di ricognizione in Terra di Bob lo programmiamo con la compagnia più cheap in assoluto nel panorama aereo: la gloriosa Aeroflot modello U.R.S.S. Solo 500.000 lirette A/R! Reduce da numerose missioni militari, durante la II Guerra Mondiale, la compagnia di bandiera sovietica si era riciclata come servizio civile subito dopo la guerra; siamo agli sgoccioli dell’Impero Sovietico, ma il nostro Tupolev Tu-124 ci aspetta comunque a Fiumicino, partenza mattutina, sulla carta.
Lui ci aspetta, ma noi non sappiamo ancora COSA ci aspetta:
h 8:00 – FCO airport : attesa 3 ore – Volo Roma /Shannon 3 ore
Il volo è previsto per le 8:15, ma ci avvertono che ci sarà un ritardo di circa un’ora, che si protrae per oltre tre. Alle 11:30 saliamo la fatidica scaletta, e ci accomodiamo (si fa per dire) sulle micro compagne poltrone: davanti a noi, un gruppo di russi già ubriachi per l’attesa, si diverte a gonfiare i salvagenti sotto il sedile, durante il solito briefing del personale di bordo sulle misure di sicurezza prevolo… la farsa degenera in tragedia e i comrades sono minacciati di espulsione, quando due di loro iniziano a fare pernacchie con la bocca indossando la mascherina di ossigeno; contagiati dai buontemponi, ci scompisciamo dal ridere, fino a che il capo servizio indica la exit way anche a noi; alla fine l’ordine è ristabilito, il tipo gallonato scruta tutti con la faccia schifata di chi ha visto insetti repellenti passeggiare sulle poltrone, e tira impettito la tendina che separa noi dannati dell’economy dai Divi della Prima, soprattutto burocrati di medio livello e imprenditori rampanti, ante-capitalismo stile Yukos, solo in scala minore però, che i pezzi grossi veri già viaggiano a bordo di jets privati. Dopo tre ore atterriamo a Shannon in Irlanda; confinati in uno pseudo gift shop per altre tre. Alla fine si decolla per Mosca: 4 ore e 45 minuti, la durata del volo. Atterriamo all’aeroporto Seremet’evo alle 22, complice il fuso orario, due ore in più dell’Italia.
Totale: circa 11 ore, tra ritardi, scali e volo.
Permanenza a Mosca 21 ore – Hotel Kafka
Abbiamo mangiato un panino alla gomma a Shannon, è stato l’ultimo pasto, niente a bordo, neanche un pacchetto di noccioline. Zero. Niet. Quando arriviamo alla reception dello pseudo hotel convenzionato con la compagnia, un palazzone in rovina che sembra uscito dagli incubi di Franz Kafka, con l’insegna illeggibile, le simpatiche impiegate con un ghigno sadico ci avvertono che da mangiare non c’è un bel nulla, la cucina chiude alle 21. Saliamo in camera, una minuscola cella per frati, letto duro come il marmo, un forno crematorio, non avrei mai pensato di soffrire il caldo in Russia, ma in fondo siamo ad Agosto.
La lista delle restrizioni è lunga, nell’ordine:
Abbiamo fame, dateci da mangiare… “NIET!”
Abbiamo sete, dateci da bere… “NIET!”
Fa un caldo boia, c’è l’aria condizionata? “NIET!”
Ma fa caldo, posso avere un ventilatore? “NIET!”
Il cuscino è piatto come una sogliola… “NIET!”
L’asciugamano è grande come un fazzoletto…. “NIET”
Presi dalla disperazione, decidiamo di avventurarci nella notte buia e tempestosa per comprare qualcosa da mangiare e una bottiglia d’acqua, ma quando facciamo per uscire, le porte girevoli non girano… spingiamo, fino ad accorgerci che sono le nostre amiche a tenerle bloccate...
“Dopo le 23, per motivi di sicurezza, è severamente proibito uscire agli ospiti della compagnia…”
“Abbiamo fame, sete, bastarde, aprite sta c…zo di porta…”
È proprio quello che aspettavano, per vincere la noia, cosa c’è di meglio di far morire ‘sti barboni dell’economy? Se la ridono a crepapelle, ma quando i primi “Vaffan...” cominciano a salire dalle nostre ugole inaridite, la più anziana ci avverte, con cipiglio Ghepeù, che hanno capito tutto, e che se non la finiamo di rompere, chiamano la polizia e la nostra vacanza è bella che andata.
Ci spartiamo, come fossimo al fronte, il pacco di crackers dell’unico previdente, attaccandoci al rubinetto nella stanza, l’acqua ha un sapore di ferro arrugginito, se mai vi fosse capitato di succhiarne uno…
La mattina dopo, visto che il volo con destino finale Kingston, capitale della Giamaica, è previsto per le 19, schizziamo fuori dal Gulag, accorgendoci che siamo a due passi dalla Piazza Rossa, per cui almeno ci possiamo fare un giro turistico extra, compreso nella tariffa.
Dopo aver divorato una mezza dozzina di hot dog a cranio, ci sparpagliamo sulla piazza immensa, letale per chi dovesse soffrire di agorafobia… sempre preferibile però alla claustrofobia della cella all’hotel Kafka.
La Chiesa di San Basilio è affascinante, siamo nel primo anno dell’insediamento del Presidente Mikhail Gorbachev alla guida del Paese, l’Impero ha già perso pezzi importanti, il Muro è caduto l’anno prima, e la gente vive la Grande Illusione della Perestroika, che finisce nel 1991 con il colpo di Stato che fa ruzzolare Gorby, sostituito alla Presidenza da Boris Eltsin fino al 1999. Preludi della Restaurazione Putiniana, ancora in corso. Ma questa è un’altra storia.
I Magazzini del Popolo GUM, che fronteggiano la Piazza, sono imponenti, due ali di marmo lunghe come la fame, infatti gli scaffali sono vuoti; non troviamo neanche una trattoria, le strade laterali sono piene di gente, parecchi già ubriachi a mezzogiorno, sarà l’euforia del New Deal. Quelle che non mancano mai in Russia, sono le Orsoline,(*) le vediamo sorriderci ovunque, nei magazzini, nei bar, per le strade. In Russia, così come in Ucraina, fanno parte dell’arredamento, anche se oggi la Montagna si muove e va a trovare Maometto sempre più spesso fuori dai confini nazionali, passando soprattutto dagli accessi virtuali del pc casalingo.
Rientriamo nell’hotel verso le 16; la sorpresa finale è che manca l’acqua in camera, per cui l’Odissea continua senza poterci lavare, dopo una giornata a sudare nella Piazza Rossa a 38°.
Lasciamo la struttura verso l’imbrunire, con un presagio che ci porta a dirigere la mano verso i favoriti sotto cintura; uno stormo di corvi frulla nel cielo rannuvolato, in contemporanea a la sfilata di un folto gruppo di rabbini ortodossi, con i loro abiti neri e i cappelli dello stesso colore; nero per aria, nero in terra, e dobbiamo fare ancora tre voli; Gratta Gratta, Gratta&Vinci, fino a consumare il cavallo dei calzoni!
Mosca – Managua 16 ore; 4 ore di sosta. Managua – L’Havana, tre ore di volo; e tre di sosta nella capitale cubana. L’Havana – Kingston: due ore di volo. Siamo in Giamaica, l’incubo è finito… sicuri?
Allora, facciamo un po’ di conti:
3 ore di attesa a FCO +
3 ore di volo per Shannon +
3 ore di scalo in Irlanda +
5 ore Shannon – Mosca +
21 ore sosta a Mosca +
16 ore volo Mosca-Managua +
4 ore scalo in Nicaragua +
3 ore volo Managua-Havana +
3 ore di scalo a Cuba +
2 ore di volo Havana-Kingston =
63 ore per arrivare in Giamaica!!
Potremmo scrivere un libro sulle orme del romanzo di Julies Verne, sintetizzando a livello temporale gli 80 giorni impiegati dal protagonista del libro, nelle quasi 80 ore che ci abbiamo messo noi per girare il mondo…se no, che Progresso sarebbe?
Quando sbuchiamo dall’uscita dell’aeroporto Norman Manley di Kingston, noto che i mad man e i barboni che ciondolano nei dintorni dell’hub ci guardano disgustati… puzziamo talmente tanto, che riusciamo a far schifo pure a loro!
Però non tutto il male vien per nuocere; partiamo in direzione Sav-la Mar, (ultimo scalo, prima di arrivare a Negril) a bordo di un minibus Toyota da 24 posti.
Per la prima volta nella storia giamaicana, il trasporto dei passeggeri su gomma registra degli spazi vuoti tra un gruppo e il resto dei viaggiatori… i pulmini giamaicani non hanno orari da rispettare, sullo stile di quelli africani, partono solo quando sono pieni zeppi, con la gente che deve sporgersi dai finestrini, per trovare un po’ di spazio… mezzi con limiti fissati a 24 persone, che ne caricano da 40 a 50. Stavolta i finestrini rimangono aperti solo per non morire asfissiati, malgrado la distanza concessa ai fini della sopravvivenza olfattiva, consentendo a noi di viaggiare belli larghi, un lusso inusuale da queste parti… a scapito del guadagno del conducente.
Negril, bomboclat!
Sav: Bomboclàt at day
Arriviamo a Sav dopo un viaggio allucinante, penetrando l’isola come un coltello nel burro… 120 km/h. di media, malgrado anti-strade con buche grosse come i crateri della Luna e alberi che ci sferzano in faccia, invadendo la carreggiata; dalla città, passando per i ghetti di Downtown Kingston, percorriamo Spanish Town, l’antica capitale della Giamaica, scaliamo le irte montagne che costeggiano Mandeville, dove il bus strapieno rischia di collassare più volte, bucando due gomme una dietro l’altra, con soste forzate di circa un’ora per ciascuna… nella galleria della Bamboo Avenue, dopo Santa Cruz, rischiamo di perdere quel poco di ragione rimasta, visto che le chiome minacciose dei bamboo cinesi, trapiantati quaggiù secoli fa, ci sfiorano le teste, e di notte sembrano anaconde che frustano con la coda… siamo rannicchiati verso il fondo del mezzo, un po’ perché facciamo schifo, ma anche per la fifa blu… 7 ore e ½ di tragitto, arriviamo verso le 8 del mattino, eccoci nel capoluogo di provincia del Westmoreland, Savanna-La-Mar. Nel 1800 era il porto più importante dell’Atlantico, riguardo tratta degli schiavi e il commercio della canna da zucchero, i cui campi sterminati ancora oggi circondano la città e i sobborghi.
Un serpentone centrale, Great George Street, circondato da viuzze e vicoletti ciechi, trapassa da parte a parte il centro, dalla stazione dei bus fino a sbucare sul mercato del pesce che sbocca sul mare. È Africa piena, la gente invade lo stradone, facendo la gimkana tra auto e carretti a cavallo, per la quasi totale assenza di marciapiedi. Fogne a cielo aperto, cumuli di monnezza dappertutto, che si alternano a bottegucce e mercatini, completano il quadro; se non fosse per le macchine, potremmo essere tranquillamente nel XIX secolo, niente sembra cambiato da allora.
Dobbiamo aspettare circa un’ora, prima che il prossimo pulmino si riempia come n’ovo per portarci a Negril; nell’attesa osserviamo i banchetti degli autisti che giocano a domino, una specie di dama caraibica.
Ogni volta che uno degli orchi butta sul tavolo il suo tassello, schiocca un botto che sembra uno sparo: “Bomboclàt, Raathid, me win!” “Che figo, ho vinto!” ci traduce un locale… raathid (o raatid) dal patois (il dialetto creolo) esprime un moto di gioia, come dire “Che bello, che figo” ma che è ‘sto bomboclat? Quando lo chiediamo al tipo, si sganascia dal ridere, per cui lo interpretiamo come un rafforzativo per esprimere un avvenimento positivo, piacevole… intanto arrivano i passeggeri, e un drappello di omoni in camicia e calzoni a righine come quelli dei carabinieri, si sbraccia e litiga con gli altri per accaparrarsi più clienti possibile; sono gli hustler (sollecitatori, un termine usato spesso anche per definire gli spacciatori) ognuno lavora per un pulmino diverso, il loro compito è quello di strappare i viaggiatori alla concorrenza, con qualsiasi espediente necessario… le donne sono prese per mano, specie se carine, o abbracciate, e alle gentili orecchie vengono mormorate paroline dolci, come se facessero loro la corte… solo per convincerle a salire sul proprio mezzo. Il compito degli hustlers è anche quello di riscuotere il pedaggio, a bordo dei fragorosi e sovraccarichi veicoli; di solito prendono i soldi poco prima che il passeggero scenda, non ci sono fermate prestabilite, sono tutte a discrezione del viaggiatore, che deve urlare a squarciagola, per sovrastare la musica a palla, quando è la sua ora: “One stop, driver!” “Autista, fermati ora!” L’hustler non ha corporatura ossea, è fatto di gomma, per lasciare più spazio possibile ai clienti, si plasma sulle forme interne del mezzo, si spalma sopra la portiera, come maionese dentro un panino, la quale rimane aperta per guadagnare qualche centimetro vitale… Gommaflex brandisce nel pugno chiuso una rosa di soldi, i cui petali sono le banconote da 2, 5, 20, 50, 100, dollari giamaicani (JA$), che raffigurano l’effige degli Eroi nazionali. Allora un dollaro USA al cambio valeva 18 Ja$, oggi il rapporto è 1 Usd = 105 JA$ e ci sono pure banconote da 500, 1000, fino a 5.000... ma anche questa è un’altra storia...ccia.
A un certo punto, gli Stimolatori cominciano a urlare tra di loro, inveendo, e due afferrano un coltellaccio che puntano contro gli avversari… “ecco fatto”, dico agli altri, “mò ce scappa pure er morto”… invece dopo qualche minuto di urlacci, gli omacci si mettono a sghignazzare, era tutto uno scherzo, e urlano di nuovo “BOMBOCLAT” al che catalogo definitivamente il termine ignoto nelle fila delle parole gioiose... ma non è finita qui, è chiaro.
Negril: Bomboclàt at evening
Arriviamo a Negril verso le 10 del mattino; la spiaggia lunga 15 Km., bianca come il talco, tanto spintonata dalle agenzie di viaggio planetarie.
Kilometri anche di albergucci, villette e pensioni familiari, non è ancora il tempo dei mastodonti all-inclusive ingoiagonzi dei tempi moderni… per fortuna, anche se di controindicazioni tipo turismo “No Alpitur, ahi ahi ahi!!!” ce ne sono parecchie, elencate nella prima parte di questo mio sfogo scrittorio.
Troviamo posto presso un’onesta guest-house di miti pretese, il Moonrise, la Luna che Sorge, nome romantico, che prende a prestito quello della proprietaria, Moonie, una cicciona che passa attraverso stati emotivi multipli, dal “I love U all” al “Vi ammazzo tutti brutti stronzi”, i quali cambiano di ora in ora, quando va bene. Per questa sua caratteristica, è meglio conosciuta come “Moodie”, lunatica, il che è perfetto, associato alla luna. Le camere non hanno la tv, che è ancora un lusso riservato per le strutture più care, ma in compenso al piano di sopra c’è una piscina sulla terrazza condominiale, nel cui angolo è piazzato il bar, con dentro una bella televisione a colori che riceve anche i canali americani…quando saliamo per prenderci un drink, tutti gli sgabelli sono occupati dal personale e dai perdigiorno locali, che seguono con religioso silenzio l’ultimo film di Stallone; in realtà il pubblico deve assoggettarsi agli umori instabili di Moonie, dato che il collegamento centrale è lo stesso di casa sua, a cui, con sistemi di fortuna, è allacciata anche la tv del bar.
Se Moonie si rompe di vedere Stallone, click, e il ns. Eroe sparisce, per far posto ora a una melensa telenovela, ora alle news locali.
Ogni cambio di canale, deciso da Sua Emittenza, è accompagnato da borbottii di malumore e dai continui “Bomboclàt” di protesta, il che mi fa pensare che la dolce parolina gioiosa, catalogata come tale a Sav, forse nasconde risvolti ancora inediti.
Son stato due anni al Moonrise, finito il mio tirocinio turistico, come novello imprenditore in prova, e non ricordo mai di aver visto un film fino alla sua fine, presso la filiale della tv di Moonie.
Comunque non siamo venuti fin quaggiù, dopo 100 ore di viaggio, per vedere film, ci mancherebbe altro.
Quando finalmente ci affacciamo sulla porzione di spiaggia davanti all’hotel, la bellezza del mare, con i suoi colori che sfumano dal verde smeraldo, al viola fino al blu cobalto, la finezza della sabbia, che non si attacca al corpo tipo colla Vinavil, (come invece fanno quelle giallastre, intrise di petrolio e derivati, di Ostia e Fregene) ci mozzano il fiato.
E quando dal bagnasciuga delle stupende fanciulle creole ci salutano invitanti, coperte solo da ritagli di stoffa, (al contrario di quelle con la puzza sotto il naso delle sopracitate spiagge romane, che ci guardavano schifate come bacarozzi stercorari) ci sembra veramente di stare in Paradiso, senza esser dovuti prima morire, sperando poi di superare la selezione stile discoteca di S. Pietro, per essere ammessi aldilà dei cancelli dell’Eden. Solo che qui non ci sono asessuati angeli e chierichetti che suonano l’arpa, bensì un'altra categoria di cherubini, che il sesso ce l’ha, e come.
Facciamo ritorno alla pensione solo dopo il tramonto, costretti alla fuga dai micidiali sand fly, i vampirici moscerini delle spiagge caraibiche, che si svegliano al crepuscolo, e ti pungono tutte le parti del corpo, comprese quelle coperte da calzettoni e costume, perché sono talmente microscopici da infilarsi anche tra le fibre dei tessuti.
A un tratto, dal cancello vicino, escono degli energumeni che fronteggiano altri esagitati della porta accanto.
Tutti brandiscono coltelli, pietre, e soprattutto il micidiale machete, la sciabola per tagliare la canna da zucchero di fabbricazione brasiliana, che in realtà è sovente utilizzata come arma bianca.
Lo scontro è breve, però sanguinoso; uno dei contendenti è ferito di brutto, mentre una fitta pioggia di sassi e bottiglie lanciate da entrambi gli schieramenti, ci costringe a cercare ripari improvvisati. Siamo nel bel mezzo di un feud, una lite violenta di vicinato, che accade soprattutto nei ghetti di città; però oggi è il nostro giorno fortunato. Tra una pietra e l’altra, volano anche insulti atroci, che coinvolgono l’intero albero genealogico dei partecipanti, conditi da continui e incessanti “BOMBOCLAT”, al che finalmente capisco che la parolina può esprimere gioia e stupore, ma anche trasformarsi in parolaccia o bestemmia, preludio di liti e attacchi anche mortali. E che se questo è il Paradiso di palme e angeli carnali, può anche mutare velocemente in un Inferno, con diavoli armati di machete al posto del forcone.
È la giacca double-face, del guardaroba tropicale.
De Buss: Bomboclàt at nite
I divi del reggae post-Marley degli anni ’90, Dennis Brown, Gregory Isaacs, e via cantando, concedono il loro prezioso repertorio canoro agli spilorci proprietari dei club di Negril solo con il contagocce.
Per cui, se vuoi sentirli dal vivo senza morire di sonno, tanto vale che ti fai un bel pisolino dopo cena, e metti la sveglia verso la mezzanotte, come Cenerentola.
Se va bene, daranno inizio alla loro striminzita mezz’ora di spettacolo, solo dopo l’una del mattino.
Non sapendolo ancora, ci affacciamo ai cancelli del De Buss, uno dei più vecchi reggae shows della Giamaica, intorno alle 23.
Dopo aver dribblato il solito codazzo di scrocconi e Pay-me-a beer, arriviamo al bar. Gli sgabelli sono ancora vuoti. Le Orsoline(*) giamaicane sono tra le più rigorose dell’Ordine. Così come le vere monache di clausura, i loro abiti e le loro abitudini sono regolati da una routine intransigente. Invece di velo e sandali, il guardaroba giamaicano è il seguente:
Capelli: Parrucche imperiali alla Maria Antonietta (o meglio Madame de Pompadour, più indicata nel caso specifico). Extension vertiginose, con dread e boccoli che possono arrivare fino al sedere, di capelli veri o artificiali, secondo le possibilità economiche.
Unghie: vanno da sempre alla Freddy Krueger, lunghe almeno 10 cm e affilate; utilissime in caso di rissa, meno indicate per l’igiene intima. Colorate a piacere, anche una diversa dall’altra.
Dress: il Dress Code (codice di abbigliamento) è severissimo: corpetto(top) di almeno due misure inferiori, per strizzare come limoni i seni, fino a farli quasi scoppiare; indicato per ingannare il pollo in caso di gravidanze multiple.
Gonne o pantapelle: devono essere attillati alla morte, per mettere in mostra le natiche, già prominenti per natura. Più che sederi a mandolino, qui parliamo di culi a contrabbasso.
Borse: devono essere micro, ma borchiate, con manici lunghissimi, onde tornare utili come fromboli in caso di rissa ravvicinata, vedi Davide contro Golia. Tanto i soldi si nascondono da altre parti, rossetti e condoms occupano poco spazio.
Maquillage: rossetti rosso sangue o nero antracite, stile Morticia Addams, per incutere il dovuto rispetto. Mascara a litri e ciglia finte alla Bambi sono un Must.
Orari: sono rovesciati rispetto a quelli delle Orsoline classiche, ma comunque inflessibili.
Se quest’ultime si svegliano alle quattro del mattino, le giamaicane vanno a letto intorno alla stessa ora, dopo le orazioni di rito.
La sveglia in questo caso non sarà mai prima delle tre del pomeriggio, e l’unico orario che coincide per entrambi le categorie è quello dei pasti, intorno alle 18 pomeridiane. Poi mentre le religiose vanno a letto, quelle pragmatiche iniziano le orazioni “mattutine”: prova allo specchio, per studiare movenze, sorrisi, ammiccamenti prima del confronto con il cliente; dalle due alle tre ore. La fase trucco e posizionamento capelli, ne impiega altre due. Si conclude con l’avvitamento degli artigli, infilando bracciali da 1kg. cadauno; finalmente si va al fronte: siamo intorno alle 23, prima da Alfred, il bar più famoso dell’isola, dove si comincia a sondare il terreno, se qualcuna conclude con una “lunga” in anticipo, si risparmierà le ore successive che precedono l’alba, quelle più terribili, in attesa del cantante capriccioso, e dei turisti irriducibili. Ovviamente ne deve valere la pena, con un cliente che non sia un gynaal cioè uno sparaballe che poi non cìà ‘na lira alla resa dei conti.
Però in genere il Convento si muove all’unisono, si va via all’una, e ci si ritrova al locale di turno che ha organizzato lo show musicale. Stanotte è il De Buss.
L’urlo da animale sgozzato che scuote il torpore dei sonnolenti, mentre attendiamo l’artista sul palcoscenico, proviene da una delle “anziane”, e conferma i rischi di questa missione a volte ingrata; dopo un intera nottata spesa alle calcagna di un canadese, dall’apertura dei bar fino adesso, una volta appartati, il signore distinto si rivela una sòla, un gynaal appunto, che oltre a tutto ha pure consumato; rimasto senza soldi, pensava che i suoi drink sarebbero stati sufficienti per una notte d’amore; e mal gliene coglie, i “Bomboclàt” fioccano come la neve su Mosca d’inverno, solo l’intervento dei security evitano al disgraziato sfregi permanenti, ma se vorrà continuare la sua vacanza, è meglio che si affretti subito agli sportelli del Bancomat locale.
Quando alla fine della vacanza, torniamo a Sav per il pulmino che ci porterà all’aeroporto di Kingston, noto un barbone, un “mad man” come li chiamano qua, che mentre trascina i suoi stracci “bomboclatta” come un matto, per l’appunto. E per un attimo mi passa davanti agli occhi l’immagine dei tanti nevrastenici “civilizzati” che imprecano furenti camminando, sembra che parlino da soli, in realtà si rivolgono a qualcuno nell’auricolare del telefonino nascosto.
E mi accorgo che in fondo non c’è molta differenza tra i due: il “Mad Man” del III mondo e il “Mad Man” tecnologico; entrambi folli, ma almeno il primo non si rende conto di nulla, mentre il secondo magari pensa di essere un uomo realizzato. E’ solo un’illusione, che sfiora il delirio schizofrenico. Negli States lo chiamano “delusional state”. Basta la parola.
E quando ci avviamo mesti, atterrati a Mosca per l’ultima notte di scalo, di nuovo verso le porte del nostro Gulag, un ghigno di trionfo illumina il mio volto; stavolta potrò sfogarmi senza correre il rischio di essere arrestato. Appena comparirò di fronte alle nostre aguzzine, un solo grido uscirà dalle mie labbra:
BOMBOCLAT!!!
Flavio Bacchetta, Negril – Jamaica
(pubblicato in due parti da Facci un salto, 11 e 18 novembre)
(*) Orsoline, soprannome affibbiato alle prostitute. Aldilà dell’aspetto erotico della professione, risultano sempre inquadrate in una routine ferrea, paragonabile a quella delle suore di clausura… piacere da vendere, ligie al dovere della loro Missione.