L’onere di sopravvivere
nelle notti d’esilio
dal paese amato soffia un vento così forte
da far crollare gli alberi di nostalgia
e depositare le sabbie del Sud sui tuoi
[occhi chiusi
Ben Jelloun Tahar
Un paese massacrato stigmatizza oltre alla perdita di una qualsiasi dimensione umana anche quella rassicurante e identitaria di un popolo nelle sue origini, nella sua storia e nel suo divenire.
I capelli biondi macchiati di sangue di una bambina morta bruciano il sogno di un’intera Siria ormai, come scrive Asmae Dachan, regina senza terra, icona di glorie profanate, prona e sconfitta, nascondiglio di macerie, mutilazioni della sua stessa gente. «Farò della mia parola inchiostro», recita un verso dell’autrice, ma il sentimento e la parola che usciranno dal silenzio a difendere il suo popolo, taciteranno forse la guerra?
Ondivaga nel dolore, la forza di una promessa vive immagini sovrapposte di coraggio ed impotenza e attraversa la silloge coraggiosa e sincera di Asmae. Di diverso registro stilistico, la poesia di Yara s’impone per la durezza del verso, per la sua inappellabile condanna al vessillo del potente, dell’assassino, della forza demoniaca che continua a perseguitare il popolo siriano. «L’attesa s’è spezzata in un boato soffocato/ non è delle campane il bramato richiamo/ ma l’appello al suo irrevocabil fato/ che sul funesto registro ha tessuto il suo ricamo». Ricco di contrasti per entrambe le autrici è il silenzio che offre spazio ai versi; amore e morte, naufragio e rinascita, scrittura e oblio, luogo d’amore e d’eccidio, religioso e profanatore.
L’esplosione della follia più che delle bombe sembra significare la musicata preghiera del verso che avvolge come un sudario il dolore del popolo siriano. La parola si disfa impotente dentro un massacro tanto a lungo perpetrato da mozzare il nostro parlare, denunciare, alzare il tono, chiedere aiuto, supplicare, sperare. E scrivo nostro perché quanto avviene in Siria appartiene a tutti noi e la forza di parlarne, di raccontare e di ascoltare il dolore negli occhi dei sopravvissuti non può né deve essere altro che condivisione, ascolto, asilo, solidarietà, amore.
È giunta da poco la silloge di Asmae e Yara, dal mio studio penso a quanto mi ha detto Asmae: «Patrizia, è tanto freddo in Siria».
Anche le medicine mancano e dalle testimonianze di incipit al testo avverto che le macerie estinguono anime e ricordi, confondono i vivi con i morti. Sono morti anche i superstiti condannati a sopravvivere a tanto orrore.
«Se vuoi raccontare la Siria vieni ad Homs», leggo nella prima testimonianza. «Tra poco da qui non potrà più entrare né uscire nessuno».
E seguono le parole laceranti di chi, cercando il proprio figlio tra i cadaveri, ha riconosciuto il congiunto del vicino e ha tentato di portarlo in salvo; poco dopo suo figlio non ci sarebbe più stato, i gendarmi avrebbero attaccato l’ospedale, torturato e ucciso e anche il giovane portato fuori dall’inferno non ce l’avrebbe fatta. «Mi hanno portato via l’anima» scrive una madre «e adesso ho il corpo vuoto».
E nello scorrere delle liriche… il mare. Forse unico a rispondere pietosamente al naufragio, accogliendone i corpi e liberandone le anime nella sua vastità, quelle che l’indifferenza sigilla in bare numerate.
«Io libera in catene d’impotenza» leggiamo, e in quell’impossibilità di salvare chi si ama, nel vederlo morire mentre chiede aiuto, nell’incipit della silloge che riporta le testimonianze dai campi profughi com-prendiamo che questa poesia è preghiera, supplica, «piuma senz’ali» e avvertimento di un abisso non solo di una terra ma dell’umanità.
Dissotterrati dal silenzio
noi
nomadi
cerchiamo
un passaggio
Patrizia Garofalo al popolo siriano
Ottobre 2013
Asmae Dachan e Yara Al Zaitr, Tu, Siria
Prefazione di Patrizia Garofalo
Comunication Project, Recanati 2013