Dulce Maria Cardoso
Il ritorno
Traduzione di Daniele Petruccioli
Feltrinelli/Voland, 2013, pp. 224, € 14,00
Dulce Maria Cardoso è nata in Portogallo nel 1964 ma ha trascorso parte della sua infanzia in Angola. Con la Rivoluzione dei Garofani del ’74 e la fine della dittatura in Portogallo, in Angola scendono in campo movimenti indipendentisti appoggiati rispettivamente da USA e URSS e dal Fronte di Liberazione Nazionale e volge al termine la lunga fase coloniale. L’Angola, terra di diamanti e petrolio, viene dichiarata indipendente l’11 novembre 1975. I Portoghesi che vivevano nelle colonie – così succede anche in Mozambico – devono ritornare in madrepatria.
La voce narrante de Il ritorno di Dulce Maria Cardoso, è un adolescente nato in Angola da genitori portoghesi arrivati in Africa negli anni ’50, in fuga dalla miseria e dalla fame. L’Angola è una terra benedetta per chi ha voglia di lavorare, come Mario, il capofamiglia, che con i suoi camion trasporta merci, dando lavoro ai locali.
La condizione di colonizzati, che dipendono comunque da datori di lavoro bianchi, si rovescia con il cambiamento degli eventi storici, e i neri chiedono la testa dei bianchi, costretti a lasciare le loro case e tornare in Portogallo.
I figli nati lontano dalla madrepatria l’hanno idealizzata: «Ma in madrepatria ci sono le ciliegie. Ciliegie grosse e luccicanti, le ragazze se le mettono alle orecchie come orecchini. Ragazze belle, di quelle che solo in madrepatria». Ed hanno imparato quasi a venerare il nome dei parenti rimasti là, nomi mantenuti dal ricordo di chi un giorno ha scelto di partire. Tornare in madrepatria dovrebbe significare, dunque, uscire dalla condizione di Portoghesi di serie B. Hanno costruito reti di relazioni, affetti, abitudini a Luanda: per i giovani quella è casa ed anche patria, e se devono cambiare pensano di cambiare in meglio.
Il momento della partenza diventa tragedia, in un confronto tra militari neri e il padre che si sente ingiustamente accusato di reati non commessi. Così lui rimane in carcere a Luanda e la famiglia – madre, figlie e figlio adolescenti – salgono da soli sull’aereo.
In un Portogallo ancora povero e arretrato loro sono i retornados, ammassati momentaneamente in alberghi sovvenzionati da una istituzione nata allo scopo, rifiutati dai parenti che non se li vogliono accollare, guardati con fastidio e con disprezzo, messi nell’ultima fila a scuola e nemmeno chiamati per nome.
Le condizioni di vita nell’albergo diventano sempre più difficili man mano che aumenta il numero dei retornados, i soldi che la gente è riuscita a portare con sé finiscono, ci si deve umiliare per sopravvivere e non si intravedono possibilità di cambiamento. Per fortuna, quando nessuno nutre più speranze, una notte bussa alla porta il padre, malridotto ma sopravvissuto alla prigione. In un Paese dove manca ogni tipo di infrastruttura, lui che ha saputo osare in Angola, ritrova la forza di progettare.
La situazione angosciante di chi vive una profonda delusione, col risveglio della nostalgia della casa lontana, in Angola, qui è resa da una voce narrante che si fa ossessiva e ripetitiva, a rendere giustizia ad un dolore che batte sempre più forte, con la paura della miseria che incalza, con l’umiliazione di essere all’ultimo scalino della scala sociale. E induce a riflettere sulle ragioni degli imperi coloniali e sulle loro vittime, i colonizzati in primis, ma anche chi si è recato, non senza sacrificio e dolore, in terre lontane e sconosciute , gente che non ha colpe e che paga di persona la fine di qualche modesto sogno personale, ma soprattutto la fine di un’epoca che ha visto tramontare le vecchie politiche imperiali.
Marisa Cecchetti