Mai come in questo inizio di stagione cinematografica, l’omosessualità, tanto maschile quanto femminile, è presente sugli schermi, descritta finalmente senza reticenze. È un tema che – stando anche agli ultimi titoli usciti – può prestarsi a due tipi di trattamento. C’è chi lo dipinge come di un abisso di solitudine, un deserto dell’amore (perché c’è il sesso, ma manca l’amore). C’è chi lo idealizza come un “altrove” rispetto alla normalità, dove forse si è più liberi e più felici.
Il film che ha vinto la Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes – La vita di Adele, del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche – non rientra in nessuna di queste due tipologie, anche se le attraversa – ma anche le oltrepassa – entrambe.
Il momento dell’idillio, di una felicità che sembra inalterabile e inattaccabile, è appunto soltanto un momento del racconto; e si realizza quando Adele, studentessa in un liceo, avvolta nelle nebbie dell’adolescenza che le impediscono di prendere atto dei propri più autentici desideri, conosce una ragazza più grande che la inizia all’amore omosessuale. Ed è un incontro tanto più liberatorio e festoso, quanto più il percorso precedente era stato penoso e tormentato.
Ma già quando, dall’innamoramento, il rapporto tra le due donne dà luogo a una convivenza di tipo coniugale si colgono alcuni segnali di crisi e di insofferenza. È vero: la ragazza più giovane continua a essere devota alla più grande, ad ammirarla; quest’ultima la protegge e cerca di farle da guida. Ma la prima è un’artista, una pittrice già lanciata verso il successo; l’altra si accontenta di un lavoro da maestra d’asilo, e sembra sostituire all’autoaffermazione la dipendenza dalla persona amata.
Così – come accade quando c’è chi troppo dipende da qualcun altro – quest’ultima comincia a trascurarla, a lasciarla da sola la sera, e magari senza confessarselo, ad amarla di meno.
La giovane, sentendosi abbandonata, cerca conforto nel flirt con un ragazzo. E quando la tresca viene scoperta, la convivente la caccia via di casa nel modo più spietato, senza ascoltare pianti o implorazioni.
La vicenda si svolge in una città francese – a Lille; in gran parte nell’ambiente degli intellettuali e degli artisti, nel quale l’amore tra due donne non è per nulla ostacolato (nella prima parte, è vero, la ragazza è vittima delle chiacchiere maligne delle compagne di scuola, ma senza gravi conseguenze).
Eppure le due donne non sono felici, per quegli ostacoli alla libertà che non vengono dall’esterno ma da dentro di loro; e che poi si esprimono, fra l’altro, nella dipendenza, nella possessività e nella gelosia. Le stesse dinamiche che si ritrovano negli amori eterosessuali.
È questa la sconsolata conclusione a cui arriva il film di Kechiche: anche se diverse, le due donne si ritrovano alla fine normalmente infelici. Per giungere a tale morale, forse prevedibile, il film ha momenti, da un punto di vista artistico, anche esaltanti. La sua principale qualità è farci sentire costantemente nella pelle del personaggio di Adele dal cui punto di vista è raccontata tutta la storia: nel momento della fascinazione per la ragazza più grande, carismatica ai suoi occhi, padrona di sé e dei propri desideri; come nel momento in cui, ripudiata, abbandona la propria dignità, per richiedere indietro, senza ritegno, l’amore dell’altra, tanto le appare un bene indispensabile. E sono soltanto due esempi.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 6 novembre 2013)