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“Le Presidentesse” di Werner Schwab non scandalizzano più 
di Gabriella Rovagnati
04 Novembre 2013
 

Berlino - Ieri sera, al Berliner Ensemble, Die Presidentinnen (Le Presidentesse) di Werner Schwab. In scena tre bravissime attrici (Carmen Maja-Antoni, Ursula Höpfner-Tabori und Swetlana Schönfeld) a interpretare con maestria guittonesca le tre donne delle pulizie che in questo dramma si raccontano vicendevolmente le loro frustrazioni e i loro sogni. Erna, madre delusa da un figlio perennemente ubriaco, che non le concede la gioia di diventar nonna, Grete, attempata ninfomane il cui ex marito si portava a letto la figlia, e infine Mariedl, addetta alle toilette, che esaurisce la propria soddisfazione erotica nello sturare cessi intasati. Le tre protagoniste che tentano di eludere la loro realtà nauseante, rifugiandosi nella fantasia, ripiombano alla fine nella crudezza della loro quotidianità senza alcuna speranza di salvezza.

Le attrici riescono ad accattivarsi l’attenzione del pubblico per tutti i novanta minuti dello spettacolo, e la platea alla fine applaude il trio che – nonostante la tristezza che sostanzia il testo e la fine tragica di Mariedl, uccisa e fatta pezzi nel finale dalle due colleghe di lavoro più anziane – in diversi momenti riesce a strappare la risata grazie a una comicità che nasce dalla disperazione.

La defecazione è tema centrale di questo testo, giocato su un linguaggio che fa il verso ai messaggi pubblicitari, ai fotoromanzi e alle soap opera, portavoce di un romanticismo surreale e illusorio, alle promesse della religione, vista qui come una forma di ottundente imbonimento di persone incapaci di critica e di autocritica, che si lasciano manovrare e strumentalizzare da un sistema sociale in cui non c’è spazio per nessuna forma d’amore e ancor meno per qualche parvenza di giustizia. Perché secondo Schwab, a questo mondo tutto è pattume, evidente non solo nel kitsch degli oggetti di cui la gente si circonda e con cui si agghinda seguendo insulse mode, ma anche nella falsità dei rapporti personali, tutti giocati di fatto sulla rivalità e sul reciproco sfruttamento.

Scritto dichiaratamente per épater le bourgeois, per scuotere dal loro finto perbenismo i piccoli borghesi, il dramma, rappresentato per la prima volta nel 1990 con successo, risulta oggi piuttosto stucchevole: il suo linguaggio, volutamente e ossessivamente incentrato sulle funzioni corporee e sulle perversioni sessuali, alla fine riesce noioso nella sua ripetitività, e il suo messaggio disperante, fra grottesco e assurdo, non tocca nel profondo. Lo spettatore alla fine si chiede che cosa continui a piacere di questo testo sguaiato e in tutto esagerato, pur nel il rispetto per il disagio esistenziale dello scrittore di Graz, nato nel 1958 e morto il 1° gennaio 1994 per eccesso di alcool nella notte di Capodanno, in cui si è voluto vedere incarnato il binomio “genio e sregolatezza”.


 
 
 
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