All’epoca di Marie von Ebner-Eschenbach, la cui vita coincise con quella di Francesco Giuseppe (1830-1916), la donna era relegata alla sfera domestica e in società aveva al massimo un ruolo di rappresentanza all’ombra di un uomo, padre, fratello o consorte che fosse. Le si chiedeva di essere piacente e compiacente, ma la si invitava a non pretendere di pensare, perché la si considerava inadatta sia alla riflessione sia alle logica. Se sapeva suonare il pianoforte, come La signora Berta Garlan di Arthur Schnitzler o la Erika Ewald della novella di Stefan Zweig, non doveva avere aspirazioni da virtuosa, ma accontentarsi di allietare da dilettante qualche serata salottiera, dove erano comunque i maschi i protagonisti. Se la si esortava a imparare una lingua straniera, lo si faceva perché fosse in grado di dire in un idioma diverso le stesse amene banalità che era tenuta a sciorinare in pubblico nel proprio. Una diffusa misoginia era insomma più che percettibile nella realtà sociale e culturale del mondo asburgico dello scorso fin de siècle, tanto che persino uno scrittore acuto come Karl Kraus scrive in un aforisma:
Se una donna ha da dire cose intelligenti, le dica con il capo velato. Ma perfino in quel caso il silenzio di un bel volto è ancora più suggestivo.
Marie von Ebner-Eschenbach, invece, non si attenne a questi dettami. Non aveva un volto e un fisico particolarmente attraenti, in compenso disponeva di un notevole acume intellettuale, anche se i suoi contemporanei cercarono sempre di metterla in ombra, giudicandola un’autrice di second’ordine, moraleggiante e un po’ noiosa. La contessa non era certo un’avanguardista ed era anche lontana dal cinismo degli scrittori della generazione nata nella seconda metà dell’Ottocento. Non passò però del tutto inosservata, tanto che fu la prima donna in Austria a cui l’Università di Vienna concesse la laurea honoris causa.
Scrittrice prolifica di molte prose brevi che stigmatizzano il passaggio dal passatismo della Restaurazione al liberalismo progressista della seconda metà del diciannovesimo secolo, Marie von Ebner-Eschenbach raggiunse forse i suoi esiti migliori in un genere letterario che, fino ad allora, era stato sempre considerato eminentemente maschile: l’aforisma. Al compimento del suo cinquantesimo anno d’età la nobildonna pubblicò la sua prima raccolta di Aforismi, in seguito più volte ampliata e riedita. Con questi suoi motti dimostrò non solo di saper egregiamente argomentare, ma di non essere per nulla solo una pacata signora avvezza al bon ton, bensì una persona dotata di arguzia sottile e di una notevole capacità di sintesi. Visto che la redazione di Tellusfolio ha ripubblicato la serie di aforismi che erano usciti nel 2012, propongo qui, sempre nella mia traduzione, una nuova piccola lista di questi “pensierini”, che, in maniera stringata, ma non per questo meno efficace, invitano a ripensare atteggiamenti, comportamenti e sentimenti, sui quali spesso si sorvola con colpevole superficialità.
Quanto più ami te stesso, tanto più sei nemico di te stesso.
Nulla viene tanto spesso irrevocabilmente perduto quanto un’occasione che si presenta quotidianamente.
Compassione è amore in negligé.
I matrimoni vengono conclusi in cielo, ma che poi funzionino, di questo lì nessuno si occupa.
La maggior parte della gente necessita di più amore di quanto ne meriti.
Il povero non computa mai al ricco la magnanimità come una virtù.
Chi non ricorda più con esattezza la propria infanzia è un cattivo educatore.
I mali immaginari appartengono alla categoria di quelli inguaribili.
L’odio è un vizio terribile, l’invidia è un vizio sterile.
La fiducia è qualcosa di tanto bello che persino il peggior impostore non può far a meno di provare un certo rispetto per chi gliela concede.
In un buon libro ci sono più verità di quante il suo autore ce ne abbia volute mettere.
Nulla noi scusiamo tanto facilmente quanto le pazzie che sono state fatte per amor nostro.
Un rimprovero immotivato è talvolta una forma raffinata di adulazione.
Quando la curiosità si rivolge a cose serie la si chiama impulso alla conoscenza.
C’è una cosa che dobbiamo tentare sempre di far disimparare ai nostri così detti buoni amici - la loro acutezza nel vedere i nostri errori.
Non coloro che litigano sono da temere, ma coloro che svicolano.
Quando la maldicenza deve cessare di negare un merito altrui, inizia ad ignorarlo.
Ci sono casi in cui essere ragionevoli significa essere vigliacchi.
Accontentarsi di poco è difficile, accontentarsi di molto impossibile.
Siamo così vanitosi che ci interessa persino l’opinione della gente che non ci interessa.