Dopo lo straordinario risultato del primo appuntamento riservato alla storia dello sguardo e alla vicenda del ritratto, torna l’abbinata di capoluoghi veneti (prima a Verona, alla Gran Guardia, dal 26 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014; poi a Vicenza, in Basilica Palladiana, dal 22 febbraio al 4 maggio 2014) per la seconda, grande esposizione promossa tra Verona e Vicenza con il titolo “Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento”, a cura di Marco Goldin (catalogo Linea d’ombra).
Questo evento intende raccontare lo studio della natura a partire dal XVII secolo, per giungere alle ninfee dipinte da Claude Monet nella prima parte del Novecento.
Facendo ricorso a oltre novanta dipinti e a dieci preziosi disegni provenienti come sempre da alcuni tra i maggiori musei, e da alcune preziose collezioni private, la mostra si presenta divisa in cinque sezioni, che descrivono i momenti fondamentali legati alla narrazione della natura come fatto autonomo e indipendente rispetto all’inserimento delle figure. Insomma, quella sorta di emancipazione dell’immagine quando il paesaggio non è più visto come semplice fondale scenografico, ma campeggia quale divinità assoluta e dominante.
«Il paesaggio mi distoglie dalle mie riflessioni. È bello e pertanto chiede di essere contemplato». Con queste parole, Franz Kafka voleva forse regalare la rappresentazione artistica della natura nel dominio della percezione sensoriale in contrapposizione della ragione?
Il verde brillante di un prato cui Jhon Constable o gli impressionisti univano diverse tonalità cromatiche per accentuare l’intensità dell’impressione visiva, un cielo coperto di nubi, o l’insolita penombra che avvolge un paesaggio in tempesta, o ancora monti che svaniscono nella bruna all’orizzonte, oppure un minuscolo viandante perso in riva al mare o i cosiddetti grandi paesaggi panoramici, che da una prospettiva a volo d’uccello offrono allo sguardo una sovrabbondanza di dettagli, nei quali l’orizzonte si allarga ad abbracciare interi continenti mentre l’occhio vaga su ogni possibile formazione naturale, nei boschi, nei campi e nei prati, in ambienti selvaggi o civilizzati, sullo sfondo dei quali catene montuose e insenature invitano a smarrire in una sognante distanza – tutto ciò non sembra affatto rivolgersi al nostro intelletto, ma fa appello al nostro entusiasmo emotivo coinvolgendoci in affascinanti esplorazioni visive. Il percorso della mostra prende il via da “Il Seicento. Il vero e il falso della natura” proseguendo in “Il Settecento. L’età della veduta, quindi “Romanticismi e Realismi”, poi “L’impressionismo e il paesaggio” per approdare a “Monet e la natura nuova”.
L’arte del XVIII secolo fu attraversata da cambiamenti decisivi, concernenti soprattutto le esperienze della lontananza e dell’ignoto, che permearono profondamente la concezione di sé del paesaggismo. Questi cambiamenti interessarono in primo luogo il senso di nostalgia per l’Italia che aveva mosso gli animi europei per decenni. Da quasi due secoli, i giovani abbienti erano abituati a compiere viaggi nella Penisola allo scopo di approfondire le proprie conoscenze di arte antica e rinascimentale. All’interesse puramente formativo si aggiunse nel XVIII secolo, il desiderio sempre più ardente di coltivare sensazioni, sentimenti e atmosfere: ora l’intento era godere fino in fondo della bellezza del paesaggio italiano. A tal fine, diversi ricchi signori inglesi si fecero accompagnare da acquarellisti che avevano il compito di fissare efficacemente sulla carta ciò che vedevano i loro committenti.
Con il trattato del 1757 Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e di Bello, il filosofo inglese Edmund Burke (1729 – 1797) aprì la strada a un’estetica inglese del brivido, dell’“orrendo che affascina”. Da questo momento in poi le categorie del sublime e del bello, suggestioni che scandagliando gli abissi dell’animo umano, stimolano reazioni soggettive spesso molto forti, vengono sempre più considerate la forza motrice determinante per realizzare opere d’arte di sicuro impatto. All’incirca nello stesso periodo si faceva strada la nozione di “pittoresco”, che sarebbe diventata uno dei concetti chiave dell’epoca. Come per i paesaggi romani nello stile di Lorrain, Poussin e Salvator Rosa, tale concetto pone l’accento sugli stati emotivi e sulla suggestione psicologica favoriti da certi temi, ma anche da criteri formali ben precisi. Con l’avvento della parola magica “sublime”, si fecero sempre più strada nell’arte paesaggi che si distinguevano per le intrinseche qualità pittoriche e offrivano brividi voluttuosi. Lord Byron (1788 – 1782) elesse il Reno e Venezia a quintessenza dello scenario romantico, e frotte di turisti seguirono le sue tracce.
Nel XVII secolo, quando, fra gli altri i filosofi francesi Jean-Jacques Rousseau (1712 – 1778) e Denis Diderot (1713 – 1784) e il poeta tedesco Friedrich Schiller (1759 – 1805) lamentarono a gran voce l’estraniamento dell’uomo dalla natura, si cominciò a fare esperienza di quell’atmosfera soggettiva e totalmente libera che diveniva la qualità più apprezzabile di un paesaggio. Lo storico dell’arte svizzero Oskar Bätschmann descrive la Scuola di Barbizon con l’espressione “revoca del mito”. Infatti solo molto di rado Camille Corot (1796 – 1875), per citare uno degli esponenti del movimento, popolava il suo vaporoso e anonimo scenario naturale con personaggi accessori, tanto da essere considerato precursore dell’Impressionismo.
Il “paradiso terrestre” simboleggiato nel paesaggio naturale, diventa il paradigma più convincente nell’Impressionismo, cantore di acqua, di nuvole e spiagge, ma anche di motivi urbani come Promenade, Boulvard e parchi affollati, filtrati attraverso le vibrazioni luminose e da colori scomposti e pennellate vibranti.
Paul Cézanne (1839 – 1906) parte da qui ma la rappresentazione intuitiva della natura verrà abbandonata in favore dei dati visivi, che sono in primo luogo informazioni cromatiche. La forma è il risultato del colore. Lo sguardo sulla natura prevede sempre una consapevolezza della propria percezione, in cui l’immagine e la natura instaurano un parallelismo costruttivo. Per Cézanne, variazione e immobilità non si escludono a vicenda, ma al contrario hanno pari dignità e immobilità non si escludono a vicenda, ma al contrario hanno pari diritto nel processo di costruzione dell’immagine, nella sintesi dei fatti visivi.
Maria Paola Forlani