Andrea Molesini
La primavera del lupo
Sellerio editore Palermo, 2013, pp. 295, € 14,00
La guerra partigiana vista dagli occhi di un ragazzino ci rimanda a Italo Calvino, che ne Il sentiero dei nidi di ragno, dà voce a Pin, che si è trovato prematuramente a fare i conti con la vita, precipitato in una solitudine affettiva tale da spingerlo ad assumere atteggiamenti da adulto, per essere accettato. Andrea Molesini invece dà voce direttamente a Pietro, dieci anni, che nel marzo del 1945 è rifugiato in un convento in un’isoletta della laguna di Venezia, protetto dagli adulti ed amato.
Frate Ernesto è un punto di riferimento al convento, “è come un sasso grande che occupa tutto il sentiero” e sa stare anche davanti ai tedeschi di A-H, in un “silenzio di quelli che si fanno ascoltare”. Suor Elvira è giovane e bella, ha qualcosa di strano nell’aspetto e nel comportamento, come se sotto il velo e l’abito bianco non ci fosse una suora. È misteriosa, il suo segreto si scopre attraverso le pagine del diario che scrive anche nel buio.
Con Pietro ci sono degli ebrei, un bambino della sua età di nome Dario, silenzioso, che ragiona solo con i numeri ed ha le orecchie a sventola, e “quindi non può avere ucciso Gesù”, e due sorelle, Ada e Maurizia, ovvero Mauriziada: alle sorelle Jesi che sono due molto ebree che stano nascoste con noi è suor Elvira che porta da mangiare, anche se passano quelli con la divisa che fa paura suor Elvira porta sempre da mangiare a quelle due, si vede che allora non le importa se anche loro hanno ucciso Gesù.
Ormai gli Americani sono arrivati al Nord, ma in quella confusione, tra Tedeschi sempre più crudeli negli estremi tentativi di difesa, partigiani e repubblichini di Salò, civili che collaborano e gente che aspetta con ansia i liberatori, non si sa mai quali siano le intenzioni di chi ti trovi davanti.
La fuga nottetempo di Dario, Pietro, le sorelle Jesi, frate Ernesto e suor Elvira, è l’inizio di un percorso tra gli ultimi feroci colpi di coda della guerra, con rocambolesche corse sul mare per sfuggire agli inseguitori, con percorsi pericolosi sulla terraferma, in un assottigliarsi tragico del gruppetto dei fuggiaschi.
L’aiuto è offerto da personaggi insoliti, come un pescatore, “Lirlandese”, che li porta nel “buio gonfio come una focaccia”, che filano “che nemmeno un motoscafo fila così”. Poi sono soccorsi da un misterioso tedesco che fugge da qualcuno, che ha una borsa da cui non si allontana mai, e intanto i colpi di scena si susseguono fino alla liberazione. In mezzo alle atrocità della guerra fioriscono le passioni, alimentate dal coraggio e dal bisogno di amore, che fa sentire ancora umani e vivi.
Molesini ha la straordinaria capacità di seguire i meandri della mente di Pietro, che non chiede la ragione di ciò che vede ma interpreta da solo, con percorsi fascinosi e quasi magici, come possono essere quelli dei bambini quando cercano le spiegazioni logiche, con la stessa divertente tenacia di Winny Pooh. Il linguaggio diventa leggero e libero come la sua fantasia, con immagini cariche di poesia capaci di raccontare senza perifrasi la morte e la vita. Il ragazzino sa osservare, niente gli sfugge delle mosse e degli stati d’animo dei grandi. La razionalità di Dario, il bambino dei numeri, fa da equilibrio alla sua fervida immaginazione.
Pietro e Dario avevano gli occhi puliti, sgombri dal male, quando è iniziata la fuga. Al momento della liberazione i loro occhi hanno visto troppo, intanto l’odio e la voglia di rapide vendette continuano ad ammorbare l’aria. I bambini ora sanno riconoscere il confine tra il bene e il male, sanno esprimere giudizi che suonano come una condanna, ma loro infanzia è stata bruciata.
Dando voce a Pietro, Molesini si tiene esterno, con una oggettivazione che lo protegge dal coinvolgimento emotivo, strappando talvolta il sorriso grazie alla genuinità e spontaneità dell’argomentare di due piccoli che cercano di spiegare un mondo più grande di loro.
Marisa Cecchetti