Secondo la filosofia stoica è virtuoso chi fa uso della ragione, la quale, sola, insegna a non farsi trascinare dalle passioni. I principi del diritto non sono convenzionali, ma traggono origine dalla ragione naturale. È dunque il sapiente, il virtuoso, immune dal vizio delle passioni, colui che deve governare. Questa tesi storica del diritto naturale, ripresa da Cicerone, conduce alla concezione romana dello stato: la legge universale si incarna in un gruppo di uomini sapienti o anche in uno solo, cui compete il «dovere perfetto» di governare equilibratamente. È la politica di Augusto, princeps, primo fra gli altri, non per autorità di forza, ma per autorità morale e razionale. Ed è questo che Augusto chiede che venga espresso dall’arte del suo tempo, soprattutto dalla scultura.
Duemila anni fa moriva l’imperatore che si celebrava come il rigeneratore di una nuova età dell’oro, e oggi Roma ricorda Augusto con una grande mostra alle Scuderie del Quirinale progettata da Eugenio La Rocca (e realizzata da un comitato scientifico composta da La Rocca stesso, Claudio Parisi Presicce, attuale Sovrintendente capitolino, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger), aperta fino al 9 febbraio 2014 (catalogo Electa).
L’ultima mostra italiana dedicata esplicitamente ad Augusto (intitolata “Mostra augustea della Romanità”) risale al 1937, in occasione del bimillenario della sua nascita, avvenuta, secondo la tradizione da lui stesso fondata, il 23 settembre 63 a.C. Fu un’occasione epocale.
Augusto, considerato il fondatore dell’impero, divenne il fulcro di un coerente sistema propagandistico che annoverava Mussolini come successore ed erede, fondatore di un nuovo impero. Da allora, forse per reazioni contro un quadro culturale fin troppo politicizzato, l’età di augusto non ha più avuto in Italia sostenitori capaci di costruire, attraverso un’esposizione di taglio differente, una nuova immagine dell’inizio del principato. Nel 1988, sulla base di un’idea di Eugenio La Rocca, e con il fortissimo impulso di Wolf-Dieter Heimeyer, si tenne al Gropius-Bau di Berlino, a cura e con la collaborazione di molti studiosi, una mostra esemplare dal titolo “Augustus und die verlorene Republik”, che già da solo anticipa i temi essenziali: non più, o non solo, una visione agiografica del principe, ma una revisione critica del suo operato, nelle sue ombre e nelle sue luci. Nel 2009, sempre in Germania, in occasione del bimillenario della disfatta romana nella selva di Teutoburgo, si è tenuta un’altra imponente mostra dal titolo onnicomprensivo “2000 Jahre Varusschlact”, ma divisa in tre settori: a Halten am See (imperium), a Kalkriese (Konflikt) e a Delmold (Mythos).
L’esposizione romana appare quale vera e propria epopea di cui offre subito una sintetica immagine la superba scultura dell’Augusto di Arles, opera gigantesca da confrontare con l’Augusto di Prima Porta, altro titano pure presente. La mostra si incentra sulla scultura, sui bronzi, le terrecotte, le monete, le gemme e i cammei, i gioielli e sulle arti cosiddette minori, con scelta critica basata sulle opere che rivelano nel modo più idoneo il sistema di comunicazione adottato da Augusto e dalla sua corte, e che presentano, altresì, una qualità artistica superiore alla media.
Alle Scuderie del Quirinale il grande argomento è quello della visione della classicità e dei caratteri peculiari dell’arte nell’età augustea. Ottaviano Augusto, attraverso l’arte e la letteratura, tese a dimostrare come con il suo avvento fosse ritornata la mitica “età dell’oro”. Ovunque, all’epoca, appare il suo ritratto nei diversi momenti del lunghissimo comando.
Oggi ne restano poco più di duecento raggruppabili, come ben si vede nella mostra, in tre tipologie fondamentali: ora viene paragonato ad Apollo, ora è nudo in armi, ora è togato e velato, custode della pace, rinnovatore della grande tradizione antica. L’Augusto di Prima Porta, rappresenta l’imperator (nelle vesti del comandante dell’esercito) nell’atto di arringare le truppe. La posizione del corpo è quella del Dorìforo di Policleto, ma il braccio destro si protende in alto, ad accompagnare la parola con il gesto, come nell’Arringatore del Trasimeno.
Certo questa statua non è esente da una compassata freddezza neoclassica, inevitabile proprio per la sua ufficialità, per la sua rispondenza a un programma politico dettato dall’alto del potere, non liberamente interpretato dall’artista: la scultura dell’età di Augusto, ossequiente agli ordini dell’imperatore, si mantiene in una situazione di compromesso fra tradizione locale e la cultura ufficiale di origine greca.
Questo stesso compromesso lo si trova anche nella Ara Pacis Augustea, il monumento celebrativo delle vittorie di Augusto e della pace stabilita dal suo impero e sostenuta dal suo disegno politico. Dal Louvre (che ha collaborato in modo determinante a questa mostra che vi verrà esposta dopo la sede romana) è giunto anche l’unico frammento dell’Ara Pacis portato via da Roma e di cui, nella ricostruzione attuale nell’edificio di Meier, si vede un calco.
Quello che veramente colpisce è la raffinatezza e la delicatezza estrema di certa produzione artistica come nei formidabili argenti provenienti dal tesoro di Boscoreale o le incredibili ceramiche sigillate aretine prestate dal Louvre, per non parlare di alcuni arredi della casa come una serie di vetri che documentano la eleganza e la preziosità di questa arte, imperiale ma sobria e discreta. Sorprende, nella visita.
I rilievi “Grimani” con la rappresentazione di animali che allattano i piccoli, la cui plastica di intonazione idillica delle forme trova i suoi presupposti nella tradizione ellenistica, nei versi di Teocrito e nella produzione alessandrina e che in ambiente romano trova il suo apice espressivo. Sono rilievi a carattere bucolico, destinati a decorare parchi e ninfei di domus aristocratiche all’unisono con la rinascita, della poesia tardo-repubblicana, di una sincera vena pastorale con accenti malinconici (come nelle Egloghe di Virgilio), di altissimo livello formale.
Maria Paola Forlani