Il grido contro ogni guerra
di un sopravvissuto alla ritirata di Russia
Con la poesia L’avvenire non è la guerra Renzo Nanni (Livorno 1921 - Roma 2004) si classificò al primo posto tra i poeti italiani e secondo in campo internazionale nel Concorso indetto dalla Federazione Mondiale della Gioventù che si tenne a Berlino nel 1951, e con il volumetto cui la poesia dette il titolo si affermò al Premio Viareggio Opera Prima nel 1952.
Di questo quaderno, di cui si sono tirate 300 copie numerate nella Tipografia “La Sfera” in Roma, io mi trovo l’esemplare n° 026 (fotocopiato) che mi è stato consegnato dallo stesso Renzo Nanni nei primi anni del Duemila. Riporta di suo pugno nel frontespizio:«Errata corrige; pag. 10, al 2° verso leggi eriche anziché cedule» (già corretto nella trascrizione delle poesie), e alla pagina seguente il disegno originale del pittore Renato Guttuso, di cui un dettaglio è riportato come immagine di copertina: la madre che tiene stretto a sé un bimbo con lo sguardo spaurito tenendogli la mano, mentre con l’altra cerca di ripararlo da qualcosa di orrendo che lei fissa sgomenta: la guerra e le sue indicibili atrocità. In venti composizioni di un’immediatezza impressionante, Renzo Nanni verga una pagina di storia senza tempo e valida per ogni luogo, che trasporta il lettore laddove c’è lotta e resistenza e sempre il pugno ferreo di una dittatura più o meno mascherata pronto a calare su ogni anelito di libertà e giustizia. Mentre lo spettro odioso della guerra si affaccia in ogni dove, tentando di interdire e vanificare ogni aspirazione alla pace.
Leggere queste poesie scritte da un sopravvissuto alla ritirata di Russia, giovanissimo alpino della “Julia” che prese parte poi alla Resistenza e portò avanti la sua battaglia civile fino alla fine, da poeta di cronaca e uomo di profonda umanità, aiuta a credere che mai verrà meno il principio della non violenza, condizione ineludibile per una società costruttiva basata sulla convivenza pacifica tra gli uomini.
Renzo Nanni (Livorno 1921 – Roma 2004)
L’avvenire non è la guerra
(Il canzoniere, 1° maggio 1952 - Tutti i diritti riservati)
Presto ci desteremo
Presto ci desteremo
coi morti sulle labbra
divenuti canzoni, in un sole
che spianerà le borgate
di baracche e le memorie
logore come vecchie tute operaie.
Coro dei compagni caduti
Nel giorno della resurrezione
non saliremo le scale di vetro
noi così carichi di dolore
così poveri per le gemme del cielo
così pieni di maledizione
noi che morimmo per amore di terra
di case diroccate sepolte
ai margini della strada.
Nel giorno della resurrezione
busseremo alla vostra porta
col mitra degli impiccati
e secoli di pazienza operaia.
Poi chiederemo conto a Dio:
Mario di una ferita alla nuca
Giulio della tisi del figlio
consumata nella disoccupazione
Agnese di quella sua malattia
non voluta (costava troppo
stare puliti costava troppo
mantenere chi ha sempre fame)
Luca della casa del padre
sventrata con quattro bestie
coi suoi vecchi col ramo
di lillà rampicante nel sole
noi di quel muro assolato
del cortile dove cademmo
senza bende senza preghiere.
Poi torneremo per sempre sui monti
il giorno della resurrezione…
Resistenza
Non fu solo una pagina di storia
per dare nome a una strada.
Furono lunghi anni di carcere
spalancati alla libertà. Messaggio
di morti dalla voce chiara,
aria di monti e la villeggiatura
dei poveri nelle ville dei signori.
Di là, un’Italia avvilita,
una classe disfatta, serva per denaro,
obbediente per la paura a “leggi inique”,
di qua, una società di eguali
che morivano per i diritti dell’uomo.
Resistenza fu la fabbrica salvata
per il lavoro, furono i campi
puliti dalle mine, le strade
barricate, le case fatte trincee.
E fu scritta sui muri
anche se proibito
diffusa sui giornali
anche se proibito
gridata per tutte le piazze
anche se proibito.
Uno scriveva e moriva
uno fischiava in un cinema e moriva
un altro cantava e moriva.
Resistenza è ancora la stessa gente
che si dà la mano e muore
e vuole salvare le fabbriche
per il lavoro, vuole
la terra per il contadino,
i campi puliti dalle mine
una volta per sempre,
le porte delle carceri
spalancate alla libertà.
E che non sia proibito leggere
e che non sia proibito scrivere
né cantare né lavorare in pace.
Messaggio
Hanno messo radici sul monte
tra le eriche i morti degli agguati.
Donne, portate acqua alla terra
che ha sete di rifiorire.
Rattoppate le case e i verdi
greti di cielo
che mai ridivengan trincee.
La guerra meravigliosa
Here in Africa, soldato Jonny.
Ancora macerie lungo la strada
e il mare che sa di catrame
e le notti solcate di fari
l’urlo di motori nella tua testa
di contadino americano che solo
una volta s’era perduto a Pittsburg.
L’odore di Sicilia t’è familiare:
metti un fiore al cappello, straniero
che incanti la donna affamata
dagli occhi pieni di grida.
Here in Rome, soldato Jonny,
la Roma delle reclames
e music every night.
Ora si corre, liberatori, si crede
a tutti i sorrisi di donna.
Agita il cappello, soldato della guerra
meravigliosa e music every night.
Toh! Una pallottola, soldato Jonny,
una crocetta sulla fronte, piccola come
la moneta che ti davano a casa
per una balla sudata di cotone.
Ad un suicida
Non più maledirai la tua sorte
segnando sulla terra
con affannati passi
la strada di domani.
Scioperasti la vita
non fatta per te
che sugli occhi
avevi casa e donna
malate di guerra.
Hai allentato i pugni
piegando i ginocchi
sulla tua miseria
fino a berne
sapore di morte.
Viaggio in Calabria
Troppa fame ha messo radici
nella terra bruciata calabrese
dove ho veduto gente come
grovigli di radiche secche
abbeverarsi ai pozzi con le bestie
e donne con anfore di creta
sul capo ricolme, con l’acqua
che sa di terra e di febbri
lunghe scontate al sole.
Là dove pare delitto
anche nascere e ridono solo i giardini
di bergamotti – chiusi – del padrone.
Sii gli altri, compagno
Quanto in te pare che il mondo
si perda nel pianto delle cose
e dici “io soffro”, “io
sono solo col mio caso
particolare”, allora
sii gli altri, compagno.
Oggi bisogna correre a Melissa
e in Sicilia, dove a cavallo
si muovono in colonne
paesi.
Braccianti in lotta
Quando finirà lo sciopero? Il più grande
il più forte il più organizzato
con la fame che asciuga gli occhi
gettati per i campi come sassate
le piazze stipate di comizi
e le finestre del padrone chiuse.
Lo sciopero gonfia come mare
di grano quando lo cresce il vento
e le nuvole. Semina morti
che lasciano strisce di sangue
ferite della terra che nessuna
preghiera potrà cancellare.
Le cancelleranno i braccianti, solo loro
daranno pace alle spose
già vedove dei figli della guerra.
Se ti lasciassero gridare, se almeno
ti lasciassero piangere. Ricordo,
tra i banchi della scuola, quanti secoli.
La noia dei nomi e delle date
di cento rivolte contadine, tutte
oggi fiorite nel lutto di una madre.
Scioperanti ai crumiri
Nelle mani siamo tutti uguali.
A turno sfamiamo figli, così divisi,
uniti siamo l’acqua per questa terra,
siamo una leva che può tirar su il mondo
e ci moltiplichiamo come grano seminato.
Hanno sconvolto le vigne hanno vuotato le case
e dato fuoco a tutta la contrada.
Perché questo? perché eravamo divisi e nessuno
ci diceva “spartite piuttosto la fame”.
Nelle mani siamo tutti uguali.
Loro no, che non sanno
come si ruota la falce sopra il fieno
come si scerne gramigna da spiga.
Non lavorate per loro. Non supplicate
levando le braccia in largo come croce.
Seme maledetto pianterete
mala erba raccoglierete
prima o dopo ve ne pentirete.
Nelle mani siamo tutti eguali.
Comizio in Sardegna
Ti portiamo dai pascoli dei monti,
dove il pianto si fa erba e spighe
ed anche i morti
oggi hanno mani d’erba tra i detriti,
ti portiamo noi ragazzi
un’eterna vecchia malinconia di pastori
che troppo lasciammo la terra.
Ti portiamo l’odore del carbone
delle miniere e la nostra tosse
benedetta di poca moneta
con la disoccupazione dei padri
che ci consuma.
Sventolando nomi di caduti
ti portiamo bandiere allegre di lotta
che ci quieta anche se dura e sanguinosa
e ci fa ancora amare la vita
coi suoi cieli e i suoi grandi
spazi di mare
le colline
e le fabbriche
che una sera tenemmo serrate
per difenderle come nostre case.
La guerra nostra
Si può camminare
anche con i piedi feriti
senza voce si può gridare
e molti non avranno che occhi
e mani e solo una parola
per maledire.
Potrete toglierci occhi mani
a pezzi ridurci per le strade.
Ma si può camminare
anche con una sola parola,
ricordate, e la marcia della miseria
non avrà più soste
fino alla fine.
Liberate Nazim Hikmet
Compagni, liberate Nazim Hikmet il poeta
cui vorrebbero tappare la bocca
perché voi per sua bocca parlate
ed essi temono le vostre parole
temono un uomo perché temono
milioni di uomini per questo
essi vogliono tappare la bocca al poeta
per questo lo lasciano consumare
in carcere come una piccola fiamma
non alimentata e non sanno che il fuoco
cresce dentro di voi con le sue parole
che ogni operaio oggi è anche poeta
e sa morire piuttosto che tacere
perché suo oggi è il canto
e il mondo e la fiamma
dell’avvenire.
L’avvenire non è la guerra
A Napoli ieri notte
hanno sbarcato la guerra.
L’hanno ancorata nel Golfo senza canzoni
e la città della musica taceva
come un gran pugno chiuso minaccioso.
Nave nemica non arresterai l’avvenire
nave che non risplendi alla luce
del giorno, perché porti tenebre e ti muovi
a lumi spenti sopra un mare vuoto.
L’avvenire è il respiro del mondo
fatto dall’alito di milioni di uomini uniti.
Hanno sbarcato trecentonove tonnellate
di guerra a Napoli fra case
ancora diroccate dalla guerra.
Ma l’avvenire non si misura a tonnellate
è dentro il cuore gonfio delle madri
è nella cronaca dello sciopero generale
è sulle terre dei feudi dove
si muore seminando il grano.
Torna a casa, Ike
Torna a casa, Ike, non calpestare
questa terra di fame – questi morti
lasciali in pace riposare.
Non sai che giorni da allora
son passati gridando sulle case
han bussato alle fabbriche
cantato per le strade
e come le rovine fatte luce
han cresciuto i ragazzi della guerra.
Ma il sangue di quelli pur ieri
caduti tra i tuoi passi,
di quelli di Comacchio e di Adrano,
è fiume che non vi farà passare.
Non ti daremo figli, Generale.
A mani vuote torna a casa – presto
prima che l’alba si levi
prima che parli una madre
prima che un bimbo torni a ridere
prima che rifioriscano i campi
incolti, prima che mani
d’uomini semplici segnino il tempo
lavorando a bandiere spiegate.
Perché lotto per la pace
Perché la guerra l’ho vista
nella carne dei morti negli occhi
dei sopravvissuti, l’ho vista
portare come una catena dolorosa
dalle madri di nero vestite
e come uno zaino pesante dai figli
che lasciavano la prima volta casa.
L’ho vista nella spiga recisa, nell’erba
calpestata dai carri, senza fiori,
ed agitare un fazzoletto con mano
di sposa sul binario ladro
delle tradotte cariche di vita.
L’ho vista accendere di fuoco la notte
e intorbidare chiare acque di cielo
e l’ho portata addosso come croce
nella grande URSS tra il giallo dei girasoli
dove nessuno ci odiava, nessuno
ci sfidava ad odiare.
Uomini,
che la giovinezza e i sogni
avete ancora malati di guerra,
fatelo crescere il grano appena nato,
gettate pietre e calce per la casa
da costruire ed acqua per la siepe
che faccia ombra ai riposi e battete
battete forte il ferro degli aratri
barricate d’amore le campagna
seminate sangue e dolore, oggi,
ma che presto fiorisca libertà.
Calabria, Ottobre 1951
Le fiumare s’affacciano sui campi
gonfie d’acqua.
Oggi si piange la pecora e l’olivo
la zappa perduta e pochi chili di fave.
Oggi le donne gridano dai tetti
e i morti vanno al mare.
Cosa ne dici, soldato Jonny?
Ehi, Jonny, soldato che piantavi cotone
e dappertutto cercavi l’aria di casa,
negli occhi della donna siciliana,
sui filari di mandorli,
su quella corsa di colli toscani
dove hai bevuto vino rosso a perdifiato,
cosa ne dici della situazione?
Ascoltami, soldato
che cresci con l’erba di campagna
in uno dei tanti campi senza croce.
Chi parla per te, soldato disperso,
di cui nessuno ha raccolto la voce,
chi ci racconta cosa pensasti quando
corresti nel buio col cappello infiorato
e quel tuo nome di “liberatore”?
Tu, soldato, tu non hai l’accento
dei generali della tua nazione,
ma dimmi se conosci queste frasi
di minatori, di disoccupati,
di madri che attendono sempre qualcosa
e di fanciulli accesi sotto il sole,
che ci corrono incontro con la pena
d’un’altra guerra nell’aria, dimmi
se riconosci in queste frasi il suono
della parola “pace” e la tua terra,
quella che non vedesti più,
che ha lo stesso colore
di questa nostra, avida d’aratro.
Campagna
(appunti di viaggio)
Come cantare l’erba alta che cresce,
frutti maturi accesi di sole
e cieli curvi ad arco sulle siepi
e la noia dolce di un lungo riposo?
Tutto questo potrebbe essere un canto
di festa. Io lo sento domani
scuotere la terra, io li vedo
correre il mondo i canti imbandierati.
Ma troppa terra è ancora senza seme
o è prato di uomini senza pace
che appena annuncia l’alba…
Enunciazione
Non alla notte, non a cori di stelle
corrono i giorni del poeta.
È tempo di canti da gridare
in cima a una strada d’uomini.
È tempo che il nostro dolore
e la grande gioia che ci colma
avanzino le mani.