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Renzo Nanni. L’avvenire non è la guerra (Il canzoniere, 1° maggio 1952) 
A cura di Maria Lanciotti
16 Ottobre 2013
 

Il grido contro ogni guerra

di un sopravvissuto alla ritirata di Russia

 

Con la poesia L’avvenire non è la guerra Renzo Nanni (Livorno 1921 - Roma 2004) si classificò al primo posto tra i poeti italiani e secondo in campo internazionale nel Concorso indetto dalla Federazione Mondiale della Gioventù che si tenne a Berlino nel 1951, e con il volumetto cui la poesia dette il titolo si affermò al Premio Viareggio Opera Prima nel 1952.

Di questo quaderno, di cui si sono tirate 300 copie numerate nella Tipografia “La Sfera” in Roma, io mi trovo l’esemplare n° 026 (fotocopiato) che mi è stato consegnato dallo stesso Renzo Nanni nei primi anni del Duemila. Riporta di suo pugno nel frontespizio:«Errata corrige; pag. 10, al 2° verso leggi eriche anziché cedule» (già corretto nella trascrizione delle poesie), e alla pagina seguente il disegno originale del pittore Renato Guttuso, di cui un dettaglio è riportato come immagine di copertina: la madre che tiene stretto a sé un bimbo con lo sguardo spaurito tenendogli la mano, mentre con l’altra cerca di ripararlo da qualcosa di orrendo che lei fissa sgomenta: la guerra e le sue indicibili atrocità. In venti composizioni di un’immediatezza impressionante, Renzo Nanni verga una pagina di storia senza tempo e valida per ogni luogo, che trasporta il lettore laddove c’è lotta e resistenza e sempre il pugno ferreo di una dittatura più o meno mascherata pronto a calare su ogni anelito di libertà e giustizia. Mentre lo spettro odioso della guerra si affaccia in ogni dove, tentando di interdire e vanificare ogni aspirazione alla pace.

Leggere queste poesie scritte da un sopravvissuto alla ritirata di Russia, giovanissimo alpino della “Julia” che prese parte poi alla Resistenza e portò avanti la sua battaglia civile fino alla fine, da poeta di cronaca e uomo di profonda umanità, aiuta a credere che mai verrà meno il principio della non violenza, condizione ineludibile per una società costruttiva basata sulla convivenza pacifica tra gli uomini.

 


Renzo Nanni (Livorno 1921 – Roma 2004)
L’avvenire non è la guerra
(Il canzoniere, 1° maggio 1952 - Tutti i diritti riservati)

 


Presto ci desteremo

 

Presto ci desteremo

coi morti sulle labbra

divenuti canzoni, in un sole

che spianerà le borgate

di baracche e le memorie

logore come vecchie tute operaie.

 

 

 

Coro dei compagni caduti

 

Nel giorno della resurrezione

non saliremo le scale di vetro

noi così carichi di dolore

così poveri per le gemme del cielo

così pieni di maledizione

noi che morimmo per amore di terra

di case diroccate sepolte

ai margini della strada.

Nel giorno della resurrezione

busseremo alla vostra porta

col mitra degli impiccati

e secoli di pazienza operaia.

Poi chiederemo conto a Dio:

Mario di una ferita alla nuca

Giulio della tisi del figlio

consumata nella disoccupazione

Agnese di quella sua malattia

non voluta (costava troppo

stare puliti costava troppo

mantenere chi ha sempre fame)

Luca della casa del padre

sventrata con quattro bestie

coi suoi vecchi col ramo

di lillà rampicante nel sole

noi di quel muro assolato

del cortile dove cademmo

senza bende senza preghiere.

Poi torneremo per sempre sui monti

il giorno della resurrezione…

 

 

 

Resistenza

 

Non fu solo una pagina di storia

per dare nome a una strada.

Furono lunghi anni di carcere

spalancati alla libertà. Messaggio

di morti dalla voce chiara,

aria di monti e la villeggiatura

dei poveri nelle ville dei signori.

Di là, un’Italia avvilita,

una classe disfatta, serva per denaro,

obbediente per la paura a “leggi inique”,

di qua, una società di eguali

che morivano per i diritti dell’uomo.

Resistenza fu la fabbrica salvata

per il lavoro, furono i campi

puliti dalle mine, le strade

barricate, le case fatte trincee.

E fu scritta sui muri

anche se proibito

diffusa sui giornali

anche se proibito

gridata per tutte le piazze

anche se proibito.

Uno scriveva e moriva

uno fischiava in un cinema e moriva

un altro cantava e moriva.

Resistenza è ancora la stessa gente

che si dà la mano e muore

e vuole salvare le fabbriche

per il lavoro, vuole

la terra per il contadino,

i campi puliti dalle mine

una volta per sempre,

le porte delle carceri

spalancate alla libertà.

E che non sia proibito leggere

e che non sia proibito scrivere

né cantare né lavorare in pace.

 

 

 

Messaggio

 

Hanno messo radici sul monte

tra le eriche i morti degli agguati.

Donne, portate acqua alla terra

che ha sete di rifiorire.

Rattoppate le case e i verdi

greti di cielo

che mai ridivengan trincee.

 

 

 

La guerra meravigliosa

 

Here in Africa, soldato Jonny.

Ancora macerie lungo la strada

e il mare che sa di catrame

e le notti solcate di fari

l’urlo di motori nella tua testa

di contadino americano che solo

una volta s’era perduto a Pittsburg.

L’odore di Sicilia t’è familiare:

metti un fiore al cappello, straniero

che incanti la donna affamata

dagli occhi pieni di grida.

Here in Rome, soldato Jonny,

la Roma delle reclames

e music every night.

Ora si corre, liberatori, si crede

a tutti i sorrisi di donna.

Agita il cappello, soldato della guerra

meravigliosa e music every night.

Toh! Una pallottola, soldato Jonny,

una crocetta sulla fronte, piccola come

la moneta che ti davano a casa

per una balla sudata di cotone.

 

 

 

Ad un suicida

 

Non più maledirai la tua sorte

segnando sulla terra

con affannati passi

la strada di domani.

Scioperasti la vita

non fatta per te

che sugli occhi

avevi casa e donna

malate di guerra.

Hai allentato i pugni

piegando i ginocchi

sulla tua miseria

fino a berne

sapore di morte.

 

 

 

Viaggio in Calabria

 

Troppa fame ha messo radici

nella terra bruciata calabrese

dove ho veduto gente come

grovigli di radiche secche

abbeverarsi ai pozzi con le bestie

e donne con anfore di creta

sul capo ricolme, con l’acqua

che sa di terra e di febbri

lunghe scontate al sole.

Là dove pare delitto

anche nascere e ridono solo i giardini

di bergamotti – chiusi – del padrone.

 

 

 

Sii gli altri, compagno

 

Quanto in te pare che il mondo

si perda nel pianto delle cose

e dici “io soffro”, “io

sono solo col mio caso

particolare”, allora

sii gli altri, compagno.

Oggi bisogna correre a Melissa

e in Sicilia, dove a cavallo

si muovono in colonne

paesi.

 

 

 

Braccianti in lotta

 

Quando finirà lo sciopero? Il più grande

il più forte il più organizzato

con la fame che asciuga gli occhi

gettati per i campi come sassate

le piazze stipate di comizi

e le finestre del padrone chiuse.

Lo sciopero gonfia come mare

di grano quando lo cresce il vento

e le nuvole. Semina morti

che lasciano strisce di sangue

ferite della terra che nessuna

preghiera potrà cancellare.

Le cancelleranno i braccianti, solo loro

daranno pace alle spose

già vedove dei figli della guerra.

Se ti lasciassero gridare, se almeno

ti lasciassero piangere. Ricordo,

tra i banchi della scuola, quanti secoli.

La noia dei nomi e delle date

di cento rivolte contadine, tutte

oggi fiorite nel lutto di una madre.

 

 

 

Scioperanti ai crumiri

 

Nelle mani siamo tutti uguali.

A turno sfamiamo figli, così divisi,

uniti siamo l’acqua per questa terra,

siamo una leva che può tirar su il mondo

e ci moltiplichiamo come grano seminato.

Hanno sconvolto le vigne hanno vuotato le case

e dato fuoco a tutta la contrada.

Perché questo? perché eravamo divisi e nessuno

ci diceva “spartite piuttosto la fame”.

Nelle mani siamo tutti uguali.

Loro no, che non sanno

come si ruota la falce sopra il fieno

come si scerne gramigna da spiga.

Non lavorate per loro. Non supplicate

levando le braccia in largo come croce.

Seme maledetto pianterete

mala erba raccoglierete

prima o dopo ve ne pentirete.

Nelle mani siamo tutti eguali.

 

 

 

Comizio in Sardegna

 

Ti portiamo dai pascoli dei monti,

dove il pianto si fa erba e spighe

ed anche i morti

oggi hanno mani d’erba tra i detriti,

ti portiamo noi ragazzi

un’eterna vecchia malinconia di pastori

che troppo lasciammo la terra.

Ti portiamo l’odore del carbone

delle miniere e la nostra tosse

benedetta di poca moneta

con la disoccupazione dei padri

che ci consuma.

Sventolando nomi di caduti

ti portiamo bandiere allegre di lotta

che ci quieta anche se dura e sanguinosa

e ci fa ancora amare la vita

coi suoi cieli e i suoi grandi

spazi di mare

le colline

e le fabbriche

che una sera tenemmo serrate

per difenderle come nostre case.

 

 

 

La guerra nostra

 

Si può camminare

anche con i piedi feriti

senza voce si può gridare

e molti non avranno che occhi

e mani e solo una parola

per maledire.

Potrete toglierci occhi mani

a pezzi ridurci per le strade.

Ma si può camminare

anche con una sola parola,

ricordate, e la marcia della miseria

non avrà più soste

fino alla fine.

 

 

 

Liberate Nazim Hikmet


Compagni, liberate Nazim Hikmet il poeta

cui vorrebbero tappare la bocca

perché voi per sua bocca parlate

ed essi temono le vostre parole

temono un uomo perché temono

milioni di uomini per questo

essi vogliono tappare la bocca al poeta

per questo lo lasciano consumare

in carcere come una piccola fiamma

non alimentata e non sanno che il fuoco

cresce dentro di voi con le sue parole

che ogni operaio oggi è anche poeta

e sa morire piuttosto che tacere

perché suo oggi è il canto

e il mondo e la fiamma

dell’avvenire.

 

 

 

L’avvenire non è la guerra

 

A Napoli ieri notte

hanno sbarcato la guerra.

L’hanno ancorata nel Golfo senza canzoni

e la città della musica taceva

come un gran pugno chiuso minaccioso.

Nave nemica non arresterai l’avvenire

nave che non risplendi alla luce

del giorno, perché porti tenebre e ti muovi

a lumi spenti sopra un mare vuoto.

L’avvenire è il respiro del mondo

fatto dall’alito di milioni di uomini uniti.

Hanno sbarcato trecentonove tonnellate

di guerra a Napoli fra case

ancora diroccate dalla guerra.

Ma l’avvenire non si misura a tonnellate

è dentro il cuore gonfio delle madri

è nella cronaca dello sciopero generale

è sulle terre dei feudi dove

si muore seminando il grano.

 

 

 

Torna a casa, Ike

 

Torna a casa, Ike, non calpestare

questa terra di fame – questi morti

lasciali in pace riposare.

Non sai che giorni da allora

son passati gridando sulle case

han bussato alle fabbriche

cantato per le strade

e come le rovine fatte luce

han cresciuto i ragazzi della guerra.

Ma il sangue di quelli pur ieri

caduti tra i tuoi passi,

di quelli di Comacchio e di Adrano,

è fiume che non vi farà passare.

Non ti daremo figli, Generale.

A mani vuote torna a casa – presto

prima che l’alba si levi

prima che parli una madre

prima che un bimbo torni a ridere

prima che rifioriscano i campi

incolti, prima che mani

d’uomini semplici segnino il tempo

lavorando a bandiere spiegate.

 

 

 

Perché lotto per la pace

 

Perché la guerra l’ho vista

nella carne dei morti negli occhi

dei sopravvissuti, l’ho vista

portare come una catena dolorosa

dalle madri di nero vestite

e come uno zaino pesante dai figli

che lasciavano la prima volta casa.

L’ho vista nella spiga recisa, nell’erba

calpestata dai carri, senza fiori,

ed agitare un fazzoletto con mano

di sposa sul binario ladro

delle tradotte cariche di vita.

L’ho vista accendere di fuoco la notte

e intorbidare chiare acque di cielo

e l’ho portata addosso come croce

nella grande URSS tra il giallo dei girasoli

dove nessuno ci odiava, nessuno

ci sfidava ad odiare.

Uomini,

che la giovinezza e i sogni

avete ancora malati di guerra,

fatelo crescere il grano appena nato,

gettate pietre e calce per la casa

da costruire ed acqua per la siepe

che faccia ombra ai riposi e battete

battete forte il ferro degli aratri

barricate d’amore le campagna

seminate sangue e dolore, oggi,

ma che presto fiorisca libertà.

 

 

 

Calabria, Ottobre 1951

 

Le fiumare s’affacciano sui campi

gonfie d’acqua.

Oggi si piange la pecora e l’olivo

la zappa perduta e pochi chili di fave.

Oggi le donne gridano dai tetti

e i morti vanno al mare.

 

 

 

Cosa ne dici, soldato Jonny?

 

Ehi, Jonny, soldato che piantavi cotone

e dappertutto cercavi l’aria di casa,

negli occhi della donna siciliana,

sui filari di mandorli,

su quella corsa di colli toscani

dove hai bevuto vino rosso a perdifiato,

cosa ne dici della situazione?

Ascoltami, soldato

che cresci con l’erba di campagna

in uno dei tanti campi senza croce.

Chi parla per te, soldato disperso,

di cui nessuno ha raccolto la voce,

chi ci racconta cosa pensasti quando

corresti nel buio col cappello infiorato

e quel tuo nome di “liberatore”?

Tu, soldato, tu non hai l’accento

dei generali della tua nazione,

ma dimmi se conosci queste frasi

di minatori, di disoccupati,

di madri che attendono sempre qualcosa

e di fanciulli accesi sotto il sole,

che ci corrono incontro con la pena

d’un’altra guerra nell’aria, dimmi

se riconosci in queste frasi il suono

della parola “pace” e la tua terra,

quella che non vedesti più,

che ha lo stesso colore

di questa nostra, avida d’aratro.

 

 

 

Campagna

(appunti di viaggio)

 

Come cantare l’erba alta che cresce,

frutti maturi accesi di sole

e cieli curvi ad arco sulle siepi

e la noia dolce di un lungo riposo?

Tutto questo potrebbe essere un canto

di festa. Io lo sento domani

scuotere la terra, io li vedo

correre il mondo i canti imbandierati.

Ma troppa terra è ancora senza seme

o è prato di uomini senza pace

che appena annuncia l’alba…

 

 

 

Enunciazione

 

Non alla notte, non a cori di stelle

corrono i giorni del poeta.

È tempo di canti da gridare

in cima a una strada d’uomini.

È tempo che il nostro dolore

e la grande gioia che ci colma

avanzino le mani.


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