Se avessi lasciato Cuba insieme a mia madre negli anni 70, nella prima infanzia, forse non sarei quella che sono, parlerei inglese e avrei messo il mio cuore in altre migliaia di luoghi; ma la donna che sono crede che dietro a ciascuna di queste porte ci sia una storia forte e vera, quella storia che, ancorata al dolore e ai ricordi, ha urbanizzato una città vicina alla mia con nomi e abitudini che la riproducono come una replicante davanti allo specchio.
Sì, è vero. In questa città ci sono nomi e argomenti che non vanno toccati. Episodi che infiammano e irritano. In questa città esiste una cartina ricamata con vetri frantumati dove camminare a piedi nudi si fa pericoloso e difficile. Sarebbe spaventoso camminare su corpi sommersi di lutto e tragedia. Rivivendo questioni troppo gravi e inesatte per non essere riviste attentamente.
Migliaia di domande spuntano tra le mie lacrime sopra il parabrezza.
Come vivere in una città non camminabile? Andare e tornare a Miami diventerà mai un fatto naturale, senza taciti turbamenti? C’è in loro e in noi (noi che viviamo a Cuba) il desiderio di costruire un ponte di andata e ritorno? Un ponte che ci unisca a una nazione che si accosta nei nomi, nei volti e negli accenti familiari-di fondazione.
Non lo so. Quando presento un progetto artistico nell’intento di portare visibilità da parte a parte, tendendo il tappeto del coraggio e della ragione, prendendo l’iniziativa anche se partendo da Cuba, non vedo risposta immediata. Non c’è un interesse reale. A loro deve sembrare inverosimile, bizzarro o sconsiderato. O magari, il tema Cuba a Miami sta a poco a poco passando di moda negli ambienti e il tutto si riassume in ciò che accade qui tra i cubani che già vivono in questa città.
L’isola e l’esilio. Continueremo a salutarci tra la nebbia? È davvero interesse o volontà collettiva di entrambe le parti non poter o dover trovare ciò che ci unisce a causa dell’enorme carico di rancori passati e sofferenze, colpe o responsabilità? Sono i politici a doversi muovere affinché la mia città e il suo riflesso trovino finalmente… ‘concilio’ con questo spazio costruito con sudore e memoria cubana?
Le domande aleggiano nell’aria di Miami, quest’aria salata e densa che accarezza il mio viso malinconico mentre davanti al parabrezza le parole “HABANA”, “LA CARRETA”, “PINAR DEL RIO” si ripetono ancora e ancora sotto la pioggia.
Chiudo gli occhi. Mi domando chi sarei io se fossi venuta a vivere in questa città durante la mia infanzia. Come sarebbe il mio accento e chi i miei amici. Ascolto Elena Burke in “Qué te pedí”… quella canzone che, al solo ricordo, mi ferisce. Continua a piovere su Miami e stringendo gli occhi distinguo sui cartelloni il modo di arrivare a casa direttamente e senza troppi giri.
Assaggio le mie lacrime e il sale di Miami mi restituisce lo stesso identico sapore di Cuba.
Wendy Guerra
(Habáname, 11 ottobre 2013)
Traduzione di Silvia Bertoli