Il Mart di Rovereto propone fino al 12 gennaio 2014 la mostra “Antonello da Messina” con l’intento di ricostruire l’ampia scena storica e geografica dalla quale emerge l’eccezionale individualità dell’artista siciliano: un pittore che, a metà del Quattrocento, si fa interprete, al massimo grado di un fermento creativo mediterraneo ed europeo incentrato sull’incontro-scontro tra civiltà fiamminga e quella italiana.
Il progetto espositivo è a cura di Ferdinando Bologna e Federico Melis (con la collaborazione di Maria Calì e Simone Facchinetti). Questa interpretazione di Antonello non offre solo la ricerca della collocazione cronologica delle opere, l’analisi delle relazioni da lui stabilite, ricche e diramate, nell’area mediterranea, ma è concentrata anche su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un artista “non umano” – come lo definì il figlio Jacobello –, che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche più intime dell’esistere.
Questo moltiplicarsi di esperienze – dalla Sicilia a Napoli alla Spagna, dalla Provenza alle Fiandre, da Urbino a Venezia – fanno di Antonello un protagonista di respiro internazionale, da collocare in una prospettiva storico-artistica senza limiti geografici.
In questo senso, la mostra si propone di stabilire riferimenti figurativi rigorosi, tramite confronti che coinvolgono altri protagonisti della scena artistica del momento, da Colantonio a Fouquet a Van Eyck, da Bellini a Alvise Vivarini, ad artisti meno conosciuti ma insigni, come il Maestro di san Giovanni da Capestrano, identificato con Giovanni di Bartolomeo dell’Aquila, Antonio da Fabriano, Zanetto Bugatto.
Così, si vuole rileggere, su basi storicamente fondate, lo specialissimo carattere di un’opera che dipende direttamente dalla grande lezione prospettico-luminosa di Piero della Francesca, come già suggerito nel 1914 dal giovane Roberto Longhi. La novità, in questo senso, è che i curatori individuano l’influenza di Piero non solo nella fase matura, ma lungo l’intero arco della vita artistica di Antonello, secondo modalità ogni volta diverse, funzionali alle urgenze espressive del momento. Il Messinese diede di Piero della Francesca una versione fatta di pure geometrie, che spiega anche la sua particolare sintonia, tra i maestri antichi, con le dominanti stilistiche del Novecento. Non a Caso Bernard Berenson, parlando della Madonna Berenson, faceva il nome di Paul Cézzanne. Perché in Antonello c’è la conquista dello spazio, la semplificazione dei volumi e la progressiva astrazione dai particolari fiamminghi che non vanno mai a scapito del timbro, della luminosa tenerezza emotiva ed espressiva, che sono sue prerogative. L’atmosfera, l’aria, la luce, quindi: una luce che avvolge e unifica il colore in un continuum che – questo sì – ci appare come Antonello anche dalla tecnica impiegata (il celeberrimo olio) e che gli permette di non ridurre mai a freddi emblemi geometrici le sue immagini, le quali vibrano sempre di vita, di calore, di colore.
Prendiamo l’Annunciazione (Siracusa Museo Nazionale Bellomo), il dipinto che ha subito nel tempo notevoli danni... Dapprima, nella Chiesa di Santa Maria Annunciata a Palazzolo Acreide, sua originaria collocazione, e sottoposto ai danni dell’umidità; in seguito, nel 1909, dopo in primo restauro viene trasportato dalla tavola su tela e ulteriormente danneggiato. Nella struttura compositiva e soprattutto nello studio minuzioso dell’ambiente ricco di particolari, il dipinto riecheggia l’Annunciazione del Maestro di Aix-en-Provance, quella di Petrus Christus e ancora di Jan Van Eyck, tutti autori ai quali, secondo la critica, è debitore Antonello. A fianco del leggio, davanti alla Vergine, si scorge una ceramica blu, simile a quella di San Gerolimo nello studio e, ai piedi della Vergine, un tappeto dell’Anatolia a disegni stilizzati, che ritroviamo nel san Sebastiano di Dresda. L’Annunciata (Palermo, Galleria Nazionale) può essere considerata il punto d’arrivo dello sviluppo dell’arte di Antonello. Partito da modelli locali che risentono degli influssi iberico-provenzali, nato fuori del Rinascimento, l’artista messinese del Rinascimento diventa un punto di forza.
Il fascino del dipinto consiste essenzialmente nella rappresentazione dello spazio, nell’intensità espressiva e nella sintesi luministica, che costituiscono del resto le note salienti dell’arte di Antonello. La profondità spaziale nasce dal contrasto tra lo sfondo scuro e la figura in piena luce della Vergine ammantata, ed è accresciuta nel suo “significato” dalle pagine del libro aperto e dal leggio in prospettiva che sembrano segnare il confine tra l’osservatore e la scena, mentre la mano librata a mezz’aria diventa l’elemento magistrale che unisce l’illusione alla realtà, nella creazione di uno spazio insieme reale e simbolico. L’intensità espressiva del volto dell’Annunciata, il mistero del sorriso e dello sguardo sono sottolineati impercettibilmente da piccoli dettagli: la piega della mantellina al centro della fronte, quasi fosse un capo del corredo tenuto a lungo piegato nel cassettone e tirato fuori per le grandi occasioni; la mano sinistra, che spunta dal volume, in un atteggiamento tipico della donna contadina a chiuderne i lembi; e poi la mano destra che, quasi ondeggiando, individua lo spazio tra noi e la Vergine e sembra invitarci ad arrestare il nostro slancio verso di lei, donna e Madre di Gesù. La sintesi, ottenuta nella rivelazione della luce, riesce ad armonizzare le caratteristiche tipologiche della bellezza meridionale con la ricerca di una astrazione formale, ed è espressa non soltanto dal blocco piramidale del manto, ma anche proprio dalla mancanza dello sfondo e dell’aureola. È difficile non ritrovare nello stupendo ovale del volto e nello scorcio prospettico della mano la lezione di Piero della Francesca.
Maria Paola Forlani