Dal mio viaggio in Siria
– Prima che l’esercito regolare facesse irruzione nella nostra città la mia era la vita di un normale imprenditore: riunioni, viaggi, clienti, fornitori, pagamenti, problemi vari. Avevo 25 dipendenti e due magazzini, con tre negozi nelle principali città siriane. Producevamo porte e arredo in legno alla periferia di Aleppo. Guarda dove siamo finiti ora.
Abu Safwan sospira e scuote la testa, gettando a terra il mozzicone di sigaretta che ha esaurito fino all’ultimo respiro ed elevando un lamento al cielo:
– Liberaci ya Rab, Signore.
Ha una quarantina di anni e porta un pizzetto brizzolato. Accanto a lui, appoggiato a terra, un “khashen” come chiamano qui i kalashnikov.
– Questo toro, – riferendosi all’arma, – mi ha rotto una spalla. Dai tempi del militare non avevo più preso un’arma; in fabbrica c’era un addetto alla sicurezza e l’unica arma era la sua. Nei primi tempi i mukhabarat (servizi segreti) con una scusa o con l’altra venivano spesso: oggi era un controllo, il giorno dopo una tangente, quello dopo ancora chiedevano di flan wa ellan (tizio e caio). Ci hanno esasperato, ma finché non venivano nelle nostre case andava bene tutto. Poi al posto loro è arrivato un ordigno: uno skud, che ha trasformato in briciole la mia fabbrica, un magazzino e una palazzina di tre piani. Quel giorno ci sono stati oltre 60 morti e oltre un centinaio di feriti. Abbiamo raccolto a mani nudi brandelli umani: piedi, mani e parti interne e… ti lascio immaginare il resto.
Mentre parla le sigarette di accendono e si spengono ininterrottamente.
– Non avevamo mai visto morti ammazzati; non avevamo mai visto sangue. Ti giuro che è disumano, sorella mia. Mettere parti umane in sacchi, cercare di ricomporre esseri umani come se dovessimo assemblare oggetti. Non ti dico l’odore, non ti dico quanti giorni abbiamo scavato per ritrovare tutti i dispersi. Non ti dico. La Protezione Civile ci ha detto che non sarebbero venuti per simili interventi: schiavi al servizio del regime. In compenso sono venuti decine e decine di volontari da ogni zona ad aiutarci. Se non fosse per la fede saremmo impazziti tutti in quei giorni. Ci sono persone che abbiamo tumulato in sacchi piccoli: non siamo riusciti a trovare tutte le parti dei loro corpi. Sono morti 15 dei miei operai, mio figlio Safwan, che aveva 18 anni; l’ho trovato io, aveva il torace schiacciato, la testa aperta; ho sentito l’odore del suo sangue, che ha impregnato i miei figli; l’ho seppellito insieme al cuore mio e di sua madre. È morto anche suo cugino, che ne aveva 22 ed era sposato da poco più di un mese e decine di donne e bambini che erano nella palazzina. Al funerale c’erano persone venute da tutte le zone della città. Anche quel giorno, durante la tumulazione, i cecchini hanno sparato. Ti rendi conto? Morti che seppellivano altri morti.
Abu Safwan si interrompe e prende in mano il klashen:
– Quel giorno stesso sono andato a prendere questo – indicando l’arma – per proteggere quel che restava della mia famiglia e della nostra città.
Ormai è il tramonto. – Vuoi venire a conoscere la mia famiglia? Oggi è il compleanno della mia Lina.
Percorriamo alcuni chilometri, su una strada piena di buche enormi dovute alle bombe. Parcheggiamo e Abu Safwan apre il baule dell’auto, dove ripone “il toro”; è come se, spogliandosi di quell’arma, si fosse vestito di una nuova, profonda umanità. Prende in mano un grosso sacco colorato.
Da lontano sentiamo una vocina squillante: – Baba, baba (papà, papà) – e poi uno scricciolo pieno di boccoli color castano salta in braccio all’uomo e gli dà un sacco di baci. In quel quadro desolante trovo estremamente commuovente quell’immagine. Stringo le spalle pensando ai miei…
– Papà, papà, ti sei scordato? Ti sei scordato? Dai papà – e ride mentre lui le fa il solletico. – Dai papà, ti sei scordato?
– Che cosa? – dice lui fingendo di non capire. Poi la piccola nota, nel buio, quel grosso sacco colorato.
– Habibi baba, (amore mio papà) – grida.
Nel sacco c’è un triciclo. Lina ride, schiamazza, guarda quell’oggetto, lo accarezza, ci monta sopra, poi scende e si attacca alla gamba del padre per dirgli quanto lo ama. Abu Safwan nasconde l’emozione; la guerra gli ha ucciso un figlio diciottenne spezzandogli il cuore, ma il Signore gli ha dato la piccola Lina, la sua fonte inesauribile di gioia.
Asamae Dachan
(da Diario di Siria, 29 settembre 2013)