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Marisa Cecchetti. Viaggio in Colombia senza ritorno 
Una lettera di Manolo Pieroni dal Penitenziario “Villa las Palmas” di Palmira, Colombia
28 Settembre 2013
 

C’è un ragazzo italiano, si chiama Manolo, chiuso in un carcere della Colombia, fermato tre anni fa all’aeroporto di Buga e arrestato perché nella sua valigia furono trovati sette chili di coca. Stava tornando in Italia prima del previsto perché il padre era stato colpito da un ictus ed era morta la nonna. Aveva trovato un volo per Madrid e di lì sarebbe arrivato in Italia.

Qualcuno ha cambiato la situazione della sua valigia nei vari passaggi dei check-in. Lui ha riconosciuto la sua valigia ma non il lucchetto che vi era stato apposto: hanno provato ad usarlo come trasportatore di droga. Ora è in mano ad un sistema legislativo e giudiziario dal quale non si sente tutelato, è solo in un paese straniero, in condizioni di detenzione disumane.

Per avere l’onore delle cronache nazionali, l’interessamento delle istituzioni, etc. bisogna essere un personaggio famoso? Perché per questo ragazzo non si fa il possibile perché gli venga resa giustizia?

La storia è affidata ad una lettera che Manolo ha scritto alla sorella parecchi mesi fa, in cui chiede aiuto. Da allora niente è cambiato. Di seguito il testo integrale, con rare integrazioni in corsivo. (Marisa Cecchetti)

 

*** *** ***

 

Palmira, Cali, 29.12.2012

Penitenziario INPEC Villa las Palmas.

Colombia

 

Descrizione dei fatti

 

Mi chiamo Manolo Pieroni nato a Pisa il 10.01.1981, celibe, residente in Via Nuova n. 93, Segromigno in Monte di Capannori, provincia di Lucca.

L’8 Luglio 2011 mi trovavo all’aeroporto di Cali per prendere il volo con destinazione Madrid (e proseguire per l’Italia). La decisione di rientrare in Italia fu repentina tanto che mi trovai obbligato ad anticipare il mio rientro. Arrivato all’aeroporto passo tutti i controlli e sbrigo tutte le procedure prima di arrivare all’imbarco. Una volta pronto per imbarcarmi, vengo fermato perché doveva essere effettuata una “revisione” alla mia valigia, dovuta ad un esame fatto allo scanner, che rivelava cambi di densità sospettosi. Non parlando Spagnolo cerco di far capire all’agente che identifico la valigia come la mia però alla valigia stava posto un lucchetto che non era stato posto da me tanto è vero che del suddetto lucchetto non tenevo la chiave e suddetta chiave non venne trovata neanche dopo la perquisizione; dopo di che l’agente procede all’apertura della valigia forzando il lucchetto (di questa parte dei fatti ho un testimone, un ragazzo catturato in contemporanea a me).

Rovistando la valigia l’agente incontra “tirati” tra i miei indumenti dei pacchetti che dopo attenti esami risultarono contenere cocaina per un totale di 7000 gr. Da questo momento in avanti la situazione subì una complicazione per la mia incapacità di parlare Spagnolo e costretto a cercare di spiegarmi più a gesti che a parole.

La cosa che mi ha dato più pensiero è stata la leggerezza con cui si sono svolte le indagini.

Il modo in cui viene “incontrata” la droga nella mia valigia, non è un modo quanto meno particolare o temerario, per non dire incosciente, per cercare di trasportare droga con una valigia, partendo da un aeroporto, con destinazione Europa e con partenza Colombia, simbolo mondiale della cocaina, e senza parlare del misterioso lucchetto apparso alla mia valigia del quale non si incontra la chiave?

Partendo da queste brevi e semplici riflessioni, sono bastati cinque minuti di investigazioni per scoprire che esistono molti modi per trasportare droga con la valigia, come: valigia con doppio fondo, valigia con doppio fondo a camera stagna, vestiti impregnati nelle ruote, nelle maniglie e molti altri, però nessuno di questi prevede che la droga sia messa in evidenza fra i vestiti come se stessi trasportando un dolce, perché in tutti i modi che mi furono descritti l’imperativo è nascondere e occultare la droga nel miglior modo possibile.

Invece per le autorità questa flagranza non risultò neanche quanto meno sospettosa e nemmeno degna di alcune domande al riguardo, o di cercare di investigare in direzioni diverse dalla mia.

L’idea che mi sono fatta è che qui in Colombia straniero + droga = colpevole, però non sempre è così, come dimostrano le due bande che operavano in Bogotà (delle quali il mio avvocato tiene delle registrazioni) e salite alla ribalta perché utilizzavano stranieri di ritorno al proprio Paese come “mula involontaria”, ovvero mettevano droga nella loro valigia o in alcuni casi la cambiavano e tutto questo all’interno dell’aeroporto. Qui in Colombia in molte fasi del processo ho avvertito, e di questo ne sono pienamente convinto, che la ricerca non sa della verità e della giustizia ma di un colpevole (non va verso la verità e la giustizia, ma verso l’individuazione di un colpevole) per un reato, soprattutto se l’indiziato è straniero.

La certezza e consapevolezza che la legge venga manipolata e interpretata come più aggrada ai fiscalia (chi mi sta accusando) è data dai primi tentativi di difesa del mio avvocato riguardanti la “mala cattura”.

Risulta che io al momento della cattura non parlavo neanche una parola di Spagnolo, solo capivo alcune parole (di questo mi è testimone Dio e tutti i compagni di carcere che non mi capivano quando cercavo di comunicare), quando mi catturarono non chiamarono un traduttore e per difendersi in fase di appello il poliziotto che mi catturò dichiarò che ero in grado di comprendere e parlare perfettamente l’idioma castigliano, e il giudice ha dato più credito alla dichiarazione del poliziotto che alla mia.

Dopo ci appellammo per vincimento di termine, in questo la legge mi sembrava molto chiara però anche in questo caso mi sono visto negare la libertà, per una interpretazione della legge quanto meno di “parte”.

Adesso le difese sono concentrate sulle dinamiche dei fatti che hanno portato al mio arresto e sul fatto che hanno la pretesa di condannarmi identificandomi in sede di processo con una fotocopia del passaporto in semplice senza essere autenticata perché risulta che la fiscalia non trova più il passaporto e non hanno nessun altro modo per identificarmi.

Questo è l’ultimo disperato tentativo per provare a evitare che un innocente sia condannato.

 

Fase di detenzione

 

La mia detenzione è stata suddivisa tra il carcere di Palmira ed il carcere di Buga (dove ho svolto la mia fase processuale). Le carceri sono in fase di perenne sovraffollamento tanto che molta gente è costretta a dormire sul pavimento (compreso io). Le condizioni igienico-sanitarie sono quantomeno drastiche, le attenzioni mediche carenti, attendono (visitano) 10 persone settimanali su un nucleo di 100, e se capita un’urgenza devi arrivare a pregare perché ti attendano. Il mangiare direi molto carente e di una qualità scadente che necessita essere supportata da alimenti che vendono all’interno del penale (se hai la possibilità di comprarli altrimenti fai la fame). Per quanto riguarda l’igiene personale e il vestiario sono, come l’alimentazione, le due questioni più complicate che mi trovo a risolvere perché qui non posso contare sull’aiuto di nessuno e ogni giorno diventa sempre più difficile sopperire alle naturali esigenze di una persona.

Ho deciso o meglio mi sono trovato costretto a prendere la decisione di non farmi somministrare nessun tipo di medicamento dopo che si sono verificati due o tre casi con due o tre compagni che si sono visti somministrare farmaci che non dovevano essere somministrati con le patologie mediche che presentavano.

Abbiamo avuto una morte per HIV e una morte per meningite, in nessuno dei due casi abbiamo visto prendere nessun tipo di iniziativa per contagi.

Devo anche fare presente che, in una delle mie trasferte in Buga, fui vittima di una aggressione con un coltello che mi provocò due ferite sulla spalla destra, dopo di che chiesi visita medica legale per stabilire se aveva comportato danni, che non fu mai fatta e tutto fu dimenticato, però la spalla rimane ferita e dolorante.

Riassumendo: in queste carceri vige la legge del più forte e di chi ha più conoscenze e le condizioni di vita sono denunciabili.

 

Riflessioni

 

Mi sono visto privato della libertà in un paese straniero lontano dalla mia famiglia, dai miei usi e costumi, accusato di un reato che non ho commesso. Provengo da una famiglia umile che è stata messa a dura prova da queste vicissitudini, costretta a fare debiti perché potessi assicurarmi una buona difesa e ora non può più aiutarmi.

Durante questa reclusione ho provato più volte a mettermi in contatto con l’Ambasciata e il Consolato telefonicamente e per scritto (tengo la ricevuta di invio) senza che nessuno mai e in nessun momento rispondesse o provasse a mettersi in contatto con me.

Io non mi reputo un santo ma neanche un delinquente visto che in Italia sono tuttora incensurato e ho sempre lavorato, sono sempre stato un nazionalista convinto, dotato di un sentimento patriottico molto forte e tuttavia mi provoca un amaro dolore sentirmi abbandonato dalla mia Nazione che ho amato tanto.

Mi sento abbandonato in un paese straniero dove già mi sono trovato in grandi difficoltà per il semplice comunicare, immaginiamoci quanto può essere difficile (difendersi) da accuse infamanti che possono portarmi ad una condanna superiore a 20 anni.

Mi appello a vostro aiuto perché siete l’ultima speranza di poter sopravvivere in questa situazione e di veder trionfare i diritti umani e giuridici.

Vi ringrazio per il pronto aiuto che sicuramente arriverà celere.

 

In fede

Pieroni Manolo

 

P.S.

Era anche una premura informarvi che dopo la mia cattura a distanza di qualche giorno la notizia del mio arresto è stata divulgata su giornali e televisioni con tanto di foto.

Inoltre voglio farvi presente che nel Dicembre 2011 mi sono visto recapitare qui al carcere di Palmira Valle in Colombia due documenti, uno dei quali datato 29 novembre 2011 e identificato come Ufficio AIRE Prat. …/2011 e appostigliato Comune di Capannori Prot. … … nel quale si acclara la mia iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti all’Estero).

Il secondo documento era lo Stato di Famiglia nel quale si indica il mio indirizzo con l’indirizzo del carcere nel paese straniero di Colombia.

Questo cambiamento di residenza fu fatto a mia insaputa e del quale mi sono reso conto solo a cosa già fatta.

In fede

Pieroni Manolo


 
 
 
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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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