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Maria Lanciotti. Miracolo in Italia
27 Settembre 2013
 

Ci vorrebbe un miracolo. Uno di quei miracoli da fare storia. Come per esempio Miracolo a Milano, il film di Vittorio De Sica del 1951, in cui il protagonista, un giovane orfano, sogna un mondo dove “Buongiorno voglia davvero dire buongiorno” e dove gli speculatori sono sbaragliati e i poveretti vedono esaudito ogni loro desiderio. Dove quando esce un raggio di sole tutti ne godono come di un dono personale e quando il cielo si oscura tutti sono pronti a battere i piedi contro il freddo. Un miracolo semplice, possibile, se non fosse che alla fine un’intera comunità di clochard, sfrattati dalle loro baracche, non volerà via in groppa alle scope rubate ai netturbini in Piazza del Duomo verso il paese immaginario, puro desiderio. Desiderio. Una parola ormai in disuso. Perché “I sogni son desideri”, cantava Cenerentola nel film di Walt Disney del 1950. E nemmeno per i sogni c’è più posto. Che triste la vita senza sogni e senza desideri. E senza la spinta a lottare per realizzare sogni ed appagare desideri. Che mondo fermo, che mondo freddo. Ci vorrebbe una botta di creatività, una botta di speranza. O di utopia, in mancanza di speranza. L’idea di un “non-luogo” per una società ideale. Un luogo mai esistito ma che potrebbe esistere. È tremenda la forza dei sogni, i potenti lo sanno. E la temono più di un’aperta rivolta, che saprebbero come sedare. Ne avrebbero i mezzi, per questo si chiamano potenti. Torna in mente una scritta murale degli anni 70: “Era una notte di lupi feroci, l’abbiamo riempita di luci e di voci”. Non si fa, sporcare i muri con le bombolette spray. Non si scrivono sui muri certe cose, anche se così creative e sintetiche. Come per esempio: “Felce e Mirtillo”. O come “Cloro al Clero”. O anche “Vogliamo la riforma dell’alfabeto”. O la scritta più di tutte assurda: “Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile”. Scritte che diventavano slogan, e anche viceversa, di qualche decennio fa. Sembra passato un secolo, in realtà è solo passato un millennio. Non si scrive sui muri. Non si imbrattano e deturpano le mura della città. La città vuole decoro e rispetto specialmente nella “parte alta”. Ed è giustissimo, i graffitari arrabbiati andassero a cercarsi una caverna, una spelonca, qualche baracca abbandonata. Ma risparmiassero la città, già troppo sporca di suo. Tetra, senza luci e senza voci. Ma con tanta illuminazione pubblica e tanto tanto rumore di chiacchiere a vuoto. Non ci sono più netturbini cui rubare le scope, i poveracci non credono più ai miracoli. Si vivacchia, aspettando il peggio. “Chiediamo un paio di scarpe ed anche un po’ di pan/ a queste condizioni crederemo nel doman”, il canto dei diseredati dissidenti e sognatori che nel finale del capolavoro di De Sica si lasciano tutto alle spalle puntando verso un mondo ideale. Ma era solo un film, per quanto bello.

 

Maria Lanciotti

 

 


 
 
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