Perché molti poliziotti e militari siriani hanno defezionato? Me lo ha raccontato Wisal, che ora sta con la famiglia in un campo profughi nella periferia di Idlib. Innamorata del marito e fiera di lui, oggi è lei a dargli forza.
«Siamo originari di Hass; il giorno prima di abbandonare la nostra casa abbiamo contato tra le cinquanta e le sessanta bombe piovute sopra il nostro villaggio. Appena c’è stato un momento di tregua abbiamo cercato di fuggire. Mio marito era nascosto in un villaggio vicino già da qualche giorno. Da tempo era preso di mira dai suoi superiori, perché disobbediva agli ordini: inizialmente gli avevano chiesto di prendere a manganellate i manifestanti e fotografarli per identificarli e arrestarli; non lo aveva mai fatto, limitandosi a urlare contro di loro per spaventarli; lì aveva ricevuto il primo richiamo. Successivamente era stato imposto alla sua divisione di molestare le ragazze che prendevano parte ai cortei, sequestrando quelle più giovani e graziose; anche lì aveva disobbedito, limitandosi ancora una volta a fare la voce grossa e ricevendo minacce pesanti dai suoi preposti.
Quando, infine, gli hanno intimato di sparare ai giovani manifestanti, puntando alle ginocchia e alla testa, ha preso la decisione di disertare. Mio marito non è un martire, è ancora vivo, ma è come se gli avessero ucciso l’anima. Non ha mai voluto raccontarmi quello che ha visto in caserma, ma se è arrivato a disertare, mettendo a rischio la sua e la nostra vita, posso solo dedurre che era qualcosa di drammatico. Spesso mi dice che è in pena perché con la sua scelta ci ha portato alla fuga, fino al campo profughi, ma io sono fiera di lui e gli dico che vivere onestamente da profughi significa essere felici, mentre sporcarsi le mani col sangue degli innocenti significa morire ogni giorno. Ora è addetto alla sicurezza del campo».
Asamae Dachan
(da Diario di Siria, 15 settembre 2013)