Dal Musée Jacquemart-André di Parigi sono giunte a Firenze alcuni capolavori del Rinascimento fiorentino scelti dalla raffinata collezione, la seconda di Francia dopo il Louvre per opere italiane, dei coniugi Edouard André e sua moglie Nélie Jacquemart. I tesori conservati nel palazzo-museo fatto costruire a Parigi in Boulevard Haussmann furono acquistati perlopiù nell’atelier del celebre antiquario Stefano Bardini, collezionista colto e lungimirante che, dopo aver combattuto come garibaldino, si era mosso nel gotha dei mercanti internazionali. La mostra “Il Rinascimento torna a casa”, aperta fino al 31 dicembre, ha sede proprio a Villa Bardini, nella dimora di colui che contribuì a creare nella colta borghesia europea e americana il mito del Rinascimento fiorentino, sebbene questo significò anche la dispersione del nostro patrimonio nazionale all’epoca non vincolato. La Villa immersa in uno splendido giardino all’italiana, vero paradiso di verde si estende, magicamente, sul colle, comprendendone l’adiacente estensione del Giardino di Boboli. L’incontro tra Bardini e i coniugi francesi era avvenuto nel 1882, a spingere Edouard André, erede di una famiglia di banchieri dell’aristocrazia imperiale, amico e compagno d’arme di Napoleone III, che aveva lasciato l’esercito e poi la politica, verso l’Italia e i maestri rinascimentali era stato il matrimonio in età matura con Nélie, pittrice, allieva di Ernest Hébert, ritrattista della buona società. Rimasta vedova nel 1894, Nélie continuò ad arricchire la collezione e, fedele al desiderio del marito che l’arte dovesse essere condivisa, alla morte nel 1912, lasciò allo Stato palazzo e collezione con vincolo di farne un museo pubblico. La mostra fiorentina curata da un pool di studiosi (Giovanna Damiani, Marilena Tamassia e Nicolas Sainte Fare Garnot) si è inaugurata proprio a un anno dall’apertura del Musée Jacquemart-André: tra i capolavori che sono giunti a Firenze, il San Giorgio che trafigge il drago (1430-35) di Paolo Uccello, La fuga in Egitto (1510) di Botticelli, la Madonna col Bambino di Alessio Baldovinetti (1455-60), il Suonatore di liuto (1500 ca) di Mantegna, opere di Bellini e di Carpaccio, oltre che di artisti inglesi, olandesi e francesi, bronzi e marmi di Donatello, Luca della Robbia e Laurana, e poi arredi, mobili e oggetti.
Il San Giorgio di Paolo Uccello è considerato l’opera più pregevole della collezione Jacquemart-André, un vero e proprio capolavoro. Sicuramente è la più emblematica, anche se ha continuamente fatto sollevare diversi interrogativi, ai quali la critica recente cerca di dare, progressivamente, delle risposte. Quale poteva essere la funzione di questo pannello non è cosa certa. Facendo riferimento a quanto scrive Vasari illustrando la vita di Paolo Uccello, ci si è chiesti se si potesse collegare l’opera con quel passo in cui lo storico accennava a delle decorazioni di letti; tuttavia sembra strano immaginare una volta di baldacchino con un tema così poco rassicurante. La questione non è ancora stata risolta, tanto più che la seconda versione dell’opera, che si trova presso la National Gallery di Londra, suggerisce – appunto per la sua ripetitività – una destinazione civile e sociale più che una privata. Infatti è da tenere presente che il culto di questo santo si era sviluppato a Firenze già all’inizio del XV secolo, e che all’epoca si tenevano in suo onore cerimonie e spettacoli pubblici. La vicenda, ispirata a una leggenda della Cappadocia e collegata con il mito di Perseo e Andromeda, era stata cristianizzata con la figura di un santo guerriero che aveva protetto una città minacciata dal drago. Sullo sfondo di questo racconto si poteva intravedere la lotta della Chiesa cristiana contro il paganesimo e, come diretta conseguenza, la sua liberazione. Nel contesto fiorentino, la storia poteva essere ricollegata agli sforzi fatti dalla Chiesa, con il sostegno dei Medici, per riunificare le Chiese d’Oriente e d’Occidente, grazie anche al Concilio di Firenze del 1439.
Un altro gioiello del Musée Jacquemart-André, in mostra a Firenze, è l’Ecce homo di Andrea Mantegna. Il tema del Cristo come “Uomo dei dolori” ha avuto grande diffusione tra il XIV e XV secolo. Cristo è, in genere, visto frontalmente, a mezzo busto o busto intero, come oggetto di devozione e meditazione. Questo Ecce homo, uno dei più sublimi capolavori tra gli ultimi dipinti di Mantegna, può essere visto come il culmine di questa evoluzione verso un’immagine ancora più toccante dal punto di vista emotivo. In essa, il momento narrativo stesso è astratto e il Cristo legato e sofferente è mostrato allo spettatore dai suoi accusatori piuttosto che da Pilato e dai soldati. Il quadro del Mantegna punta sul contrasto volutamente esagerato tra nobiltà trascendente del Cristo sofferente – il suo torso immacolato deturpato dai segni della flagellazione – e la brutale e grottesca bruttezza dei suoi accusatori, le cui mute richieste «crocifiggetelo, prendetelo e crocifiggetelo» sono registrate nella parola del cartiglio che descrive con bruciante eleganza l’accusa squadernata sui pezzi di carta che hanno affisso sulle loro teste.
Maria Paola Forlani