Ha scritto Fénelon: «Chi non ha sofferto non sa nulla; non conosce né il bene né il male, non conosce gli uomini e neppure se stesso». Credo che sia fondamentale questo pensiero anche se non concordo con l’ecclesiastico quietista francese –condannato tale movimento (quietismo) poi dalla Chiesa– su Bene e Male ma più propenso a credere con lo “gnostico” e “scettico” Cioran, esser tali pregiudizi di dio.
Al di là di tale mia digressione c’è da osservare che rientra il tutto in un grande orientamento mistico che si basa non sulla psicologia ma sulle ragioni dell'interiorità: pensiamo a S. Giovanni della Croce, «solo dalla conoscenza di sé può nascere la conoscenza di dio». Senza addentrarci nel terreno così fervido e così tanto poco esplorato della mistica, resta il fatto che l’esperienza del dolore è fondamentale per la nostra maturazione, per il nostro progetto esistenziale inteso in senso lato. Anche un pulcino –prima di uscire dall’uovo– soffre ma non ha coscienza del suo dolore. È la consapevolezza (o autocoscienza) che rende l’uomo tale e lo porterà ad una scelta di vita che richiameremo.
In fondo è la lezione di Hegel nella fondamentale Fenomenologia dello spirito: ha ben esplicitato la storia della coscienza dell’uomo. Lo stesso Marx che è l’allievo della filosofia hegeliana, non affermerà lo stesso sebbene con concetti più comprensibili al largo pubblico? Che differenza esiste tra il proletariato e il sottoproletariato in nuce? Proprio la coscienza di “esser sfruttati”, di far parte di una determinata classe sociale, è il discrimine tra proletario e sottoproletario. Come si vede, senza addentrarci in un argomento che esula dal presente scritto, la consapevolezza resta il punto fondamentale.
È pur vero che il concetto di “coscienza” può ingenerare equivoci e farci scivolare in pericolosi “idealismi” egoici e solipsistici, fondati sulla Certezza e Verità dell'Io, cadendo così in un bel circolo vizioso. Certezza e Coscienza (io-dio) che tocca il culmine in Cartesio che fonda tali “ragioni evidenti” per un suo preciso scopo: dare fondamento alla sua Analitica. Infatti dio è fonte di certezza dell’io ma è l’io che in breve che crea dio. Tralasciando il dubbio cartesiano che deriva da quello di Agostino d’Ippona, ci interessa fissare il concetto di coscienza (cum- scientia) ovvero la consapevolezza di essere e, al momento, provare un senso coerente di sé, ri-conoscer-ci sempre noi stessi sebbene tutto muti (ma è proprio vero? Omnia mutantur nihil interit, ma è altro discorso). In effetti ognuno di noi non deve ricorrere all’album fotografico per riconoscersi come era ieri ed è quindi oggi, per dirsi sempre se stesso: che il suo essere ora è frutto dell’esperienza passata. Tale processo che noi consideriamo automatico e facile, in realtà è una complessa elaborazione personale. Pertanto ci “costruiamo” sempre e soprattutto Interiormente nel tempo che è costituente di noi medesimi.
Noi siamo atemporali ma viviamo nella dimensione “Tempo”. Il sé altrimenti si ridurrebbe a pura astrazione invece di costruzione e ricostruzione continua. Si ricadrebbe, in ultima istanza, nella pur ricca di spunti euristici, nella filosofia di Plotino. Chi legge le Enneadi alla fine si chiede dove sia il tempo, la storia. Senza parlare dell’elemento corpo cui Schopenhauer così risponderà: “ma senza corpo che è il mondo?” Se noi fossimo angeli, il mondo sarebbe un semplice Nunc Stans. Da qui il tacere del filosofo tedesco e il suo torcere il naso davanti ai neoplatonici (da cui pure riprende).
Se Plotino con il suo tò én (l’Uno) sviluppa un sistema filosofico ricco, alla fine cerca di giungere all’estasi come fine dell’uomo (Ek-Stasis è etimologicamente uscire da sé), anche Schopenhauer ammette il Nirvana o dissolvimento dell’io particolare nel Sé universale, cosmico. Plotino però vedrà il corpo solo come degradazione, essendo materia, e solo l’estasi tutto avrebbe “annullato” (materia, dolore, male), naufragando, sprofondando nel tò én, nell'Uno. La fondamentale differenza del filosofo egizio di lingua greca e il filosofo dell’Avolontarismo è la considerazione della Natura e il Tempo che in Plotino è assente. Non per nulla dal filosofo tedesco nasceranno fecondi indirizzi e non solo concezioni filosofiche ma anche psicologiche e ripresi anche dal logico di prima grandezza Ludwig Wittgnestein.
Dato per scontato che noi non siamo solo ciò che mangiamo (tipico di tante “filosofie alimentari”), allo stesso modo non siamo solo ciò che pensiamo. Non discuteremo qui la massima buddhista, “siamo ciò che pensiamo”, sebbene la intenderei semmai in siffatto modo: “siamo come ci vediamo e come ci sentiamo”, come vogliamo progettare la vita onde come la pensiamo, sfatando ogni idealismo soggettivista. Siamo anche come ci rapportiamo al Mondo, all'Esistenza, alla Vita e alla Morte, l’unica certezza, l’unico traguardo certo. È filosofia (Philo-Sophia), da Platone in poi, propriamente la preparazione alla e per la morte. È molto importante qui appuntare le differenze (visto che abbiamo parlato di filosofi antichi e moderni), tracciarne una basilare differenza: l’uomo greco è nella natura (che mai mette in discussione, neppure Parmenide con la sua teoria fondamentale dell’Essere) mentre la filosofia moderna tende a vedere il mondo come (mera) rappresentazione. Da qui un soggetto inteso come mera espressione soggettivistica estetica, semplice opinione, o come Soggetto che ordina (quando non lo crea addirittura), legifera il mondo esteriore o oggettivo e lo quantifica. Da tale quantificazione ne nascerà la mercificazione. Pertanto necessita richiamare la fenomenologia e gli esiti dell’Analitica Esistenziale di Heidegger.
La differenza tra RES (cosa) e OBJECTUM (oggetto). Ora ciò che mi riguarda (res=cosa), sia un ricordo o tutto ciò che è legato ad uno strumento (oggetto), entra nella mia esperienza, nella mia interiorità e perde la connotazione di strumento, di oggetto ma acquista il senso profondo di mia esperenzia, costituente di tale: è quindi res. Da qui, dall’arbitraria separazione per il dominio e la mercificazione del mondo (e dell’uomo) o distinzione tra soggetto e oggetto nascerà la Daseinsanalyse ovvero una corrente che tende ad azzerare la differenza tra soggetto e oggetto per un passaggio effettivo dall’Io al Noi, alla comprensione dell’uomo nella sua esistenza (esser-ci) anche quando tale si dà tragica. Se ripensiamo a Cartesio, ne siamo agli antipodi. Il razionalismo cartesiano vede l’ente, l'oggettività della rappresentazione e la verità come certezza dato che la realtà (oggetto) si può misurare, riducendosi a ricerca di costanti e di leggi. Il soggetto è la fonte prima di sicurezza, di certezza e delle “attese” che ne conseguono. Da cui se ne può ben dedurre che tutto il Mondo è strumento, oggetto e l’uomo assume il “valore” di merce. L’uomo quindi non è in quanto è ma è (vale) solo in misura di ciò che egli sa fare, produrre.
Siamo all’acmé, al predominio dell’Ente sull’Essere (Sein). Essere che significa se non riconoscere ciò che mai muta? È nostro e ce ne sentiamo pieni: siamo presenti sempre a noi stessi autenticamente. Essere è anche quel quid di “divino”, che sta sotto: è il sostrato e nel contempo è ciò che ci illumina e ci dis-vela sempre noi stessi, la parte vera di noi, ed è verità esso stesso. Contro il puro ente o pura rappresentazione quantificabile, l’Essere pertanto sfugge da ogni reificazione e noi diveniamo sì ma continuamente nell’Essere come autenticità.
Spesso noi preferiamo il “Non-Essere”, che possiamo chiamare per semplicità schematica –o avvertiamo– come un “mal-essere”: piuttosto che mutare e rientrare nella sfera della pienezza di essere, restiamo in tale limbo di inquietudine e insoddisfazione perpetua, pur sapendo che non è tanto difficile cambiare ma ci domina il terrore di farlo. In tal stato ci “progettiamo”, per così dire, in modo passivo anche senza saper, aver coscienza di farlo (è di fatto un non -progetto). Aspettiamo che qualcosa accada, “fatalisticamente” diciamo che non possiamo agire: inutile diventa mutare, cambiare. È un atteggiamento supino di chi non lotta o si arrende prima di lottare perché ha paura di vivere (costui è il vero perdente, il vero fallito: il fallimento più grande è esistenziale o non vivere).
Ci sono tantissime persone che non amano solo per non soffrire, che mai sapranno che sia nuotare perché temono l’acqua, in un lampante esempio quanto facilmente accessibile. Temono l’acqua per paura di annegare come temono la vita per le scelte che comporta, le difficoltà, l'andare oltre (e contro) al senso comune, o hanno terrore della morte mentre non sanno già di esserlo (sono anime morte per dirla con Gogol) o temono l'amore per la delusione e per la sofferenza. Vivere, Amare, Cercare sé invece sono catarsi e non solo palingenesi o rinnovamento ex novo.
L’archetipo lo ritroviamo anche negli Evangeli: se io voglio nascere, debbo morire. Il seme deve morire se vuol dar vita alla pianta. Non lo considero nulla di “divino” ma antropologico. Divino semmai come forma, come esperienza trascendentale su cui mi baso, in genere, per pungolare chi legge (inter-relazione) e cercare in-sieme nuove interpretazioni e soluzioni, senza pretendere, come avvertiva Hegel, “di mettere le brache al mondo”. Russell ha ben distinto due giudizi. Questa mela è buona o rossa è ben diverso dall'affermare che questa mela è più grossa di quella. Il primo è un giudizio di qualità, il secondo mi manda ad una relazione: una mela più grossa dell'altra. La crisi di identità è soprattutto crisi di relazione. È crisi di relazione soprattutto con se stessi quando l’io non parla con il sé. Da cui non una solitudine cercata e creativa ma il rinchiudersi in un solipsismo, una solitudine forzata da cui non può che nascere il senso di inutilità. È bene chiederci chi siamo ma anche agire per essere altrimenti diventa un esercizio narcisistico, uno specchiarsi ed accontentarci della nostra immagine.
Ha detto bene Proust: l’essere umano è una creatura senza età fissa onde per cui è sempre attuale il provare ad Essere, ad Assaporare il senso di pienezza e di spiritualità, a cercare l’azzurrità!
Enrico Marco Cipollini