La mostra “Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento”, promossa dal Comune di Padova, Assessorato della Cultura e sostenuta dalla Comunità Ebraica di Padova, è allestita negli spazi espositivi del Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 13 ottobre 2013, a cura di Marina Bakos e di Virginia Baradel, (catalogo trart) Unico nel suo genere, questo evento presenta un’accurata selezione di opere di otto artiste del Novecento che tiene conto di una doppia identità: l’essere donne ed ebree oltre che artiste, dedicate a una vocazione scelta e perseguita con lucida passione.
Al centro dell’esposizione s’impone, per quantità e qualità di opere, la presenza di Antonietta Rapaël, lituana di origine, figlia di un rabbino. A Londra, dove risiede la famiglia, prende lezioni da Jacob Epstein e conosce Yossip Zadkine, traendo da questi due scultori preziosi insegnamenti. Nel 1924 si trasferisce a Roma, dove conosce Mario Mafai, che diventerà suo marito. I due dividono uno studio in via Cavour e fondano il cenacolo di artisti, che darà vita alla cosiddetta “Scuola romana”.
Perseguitata dal fascismo e costretta a nascondersi perché vittima di discriminazioni razziali, Antonietta Raphaël otterrà i primi riconoscimenti pubblici soltanto dopo la caduta del regime. La sua opera scultorea e pittorica – in linea con le istanze della Scuola romana – si oppone all’idea di un’arte intesa come restaurazione e rivalutazione del proprio passato storico in senso nazionalistico, e propone un linguaggio istintivo di chiara ascendenza espressionista, in forte contrasto con gli ideali del “Novecento” di Margherita Sarfatti. In mostra ci sono opere fondamentali e assai note: dipinti come Autoritratto con violino e Natura morta con chitarra e un consistente numero di sculture come Angoscia e Re Davide piange la morte di Assalone. Non mancano soggetti relativi al tema dell’ebraicità (La lamentazione di Giobbe e Yom Kippur in sinagoga) nei quali Raphaël ribadisce il suo “deciso orgoglio della differenza”. Il suo pantheon espressivo è costituito da donne indipendenti e audaci, recuperate dalla tradizione biblica e dai racconti della mitologia classica. Da Salomè a Giuditta, da Tamar alle varie Niobi dolenti, il suo universo privato matriarcale, radicalmente opposto a una realtà sociale patriarcale, cattolica e fascista, riferisce di se stessa e della sua speculazione sulla dimensione muliebre. L’insoddisfazione e l’aspirazione alla perfezione permeano il suo intero percorso, un’instancabile ricerca che è poi appassionato rincorrere l’epifania della vita.
Una sala centrale è dedicata anche a Eva Fischer, pittrice assai feconda e ancora attiva. Fischer traduce il ricordo “della tragedia” in un personale diario sulla Shoah: è la pagina più toccante della sua produzione fatta di colori lividi che rimandano ai versi di Nelly Sachs (Meditate che questo è stato). Ma la sua personalità solare si nutre anche di altri temi che si succedono a cicli: gli Interni, i Mercati (che incantarono de Chirico), Capri le cui architetture mediterranee finiranno per trasformarsi in partiture astratte ispirate alle composizioni che scrisse per lei Ennio Morricone. Fischer visse per intero la stagione romana del dopoguerra, apprezzata dai protagonisti dell’arte, del cinema, della letteratura, della musica che si davano convegno in quei luoghi di socialità e dibattito rimasti leggendari.
La prima sala della mostra è dedicata ad Alis Levi che si presenta con i disegni di formazione e le prime prove a pastello nate sulla scia dei maestri francesi, ma che ben presto lasciano spazio a innovazioni vicine a Gino Rossi e a Garbari, come testimonia Bambino sotto l’albero. In opere quali S. Pietro in Volta e Paesaggio.
Alis si affida in ombre scure e animati dal gioco dei pastelli che crea densità e asperità accentuandone i toni e esaltandone il valore cromatico.
Continuando nel percorso troviamo affiancate nella sala successiva, Adriana Pincherle (sorella maggiore di Alberto Moravia) e Gabriella Oreffice, due pittrici che accendono i toni di una policromia pulsante confrontandosi sulle due sponde opposte dell’Espressionismo e del Postimpressionismo. Adriana la fauve romana, mette tutta la sua vitalità in “pezze di vivo colore” distribuite con eguale irruenza nei celebri ritratti (come quelli della sorella: Ritratto di Elena con cappellino del 1950 e nel più tardo Ritratto di Elena Cimino) e nelle composizioni come La scatola dei guanti, di grande e costruttiva intensità cromatica. La Oreffice, nata a Padova il 18 settembre 1893, visse l’intera vita a Venezia. Appartenente alla buona borghesia ebraica ben inserita in quella società che, nel primo decennio del Novecento, attraversava un periodo di crescita economico-sociale e di progresso di rilevanza storica. La Oreffice esponente di spicco della seconda stagione capesarina, esordisce in mostra con Maschera siamese che risente di un breve ma fecondo allunato presso Galileo Chini. A seguito dipinti di straordinaria carica cromatica come la tempera del 1919 Natura morta con sedia rossa o Mele e tazzina, un olio su tavola del 1927, mentre Natura morta – Il The, del 1920 il colore si fa più scabro e che in opere come Riva degli Schiavoni e Barche sul canale si ripiegano in luminosità più soffuse. Spicca in mostra il Ritratto di Semeghini, del 1929.
Altro genere di pittura è quello di Lotte Frumi nata a Praga e formatasi alla cultura Mitteleuropea (conobbe e frequentò Kafka e Schile). Il suo stile si basa su un antinaturalismo espressionista che si avvale di una luce chiara, a volte livida e di colori freddi cui spesso fa da contrappunto il dialogo acceso di rossi e ruggine.
In mostra paesaggi quali Vela rossa e Le lavandaie dialogano con i ritratti di Armando Pizzinato e Ernesto Rubin de Cervin.
La Koinè novecentista è presente in mostra con una pittrice di grande valore, nipote di Margherita Sarfatti, che morì giovane di parto, Paola Consolo. Le sue figure fortemente modellate, vigorosamente plastiche, possiedono anche una sottile e sensibile intelligenza del colore che, diventando via via meno mentale, si affida ai rosa segreti, ai grigi minerali, agli azzurri soffusi che infondono alla sua pittura una liricità silenziosa. Nell’Autoritratto, esposto alla Biennale del 1932, l’artista si presenta come un’icona novecentista: i toni bassi sottolineati dal chiaroscuro accentuano la rigorosità delle forme.
Nell’ultima sala Silvana Weiller che non è stata solo pittrice ma anche poetessa, scrittrice, critico d’arte e letterario. Protagonista dell’intellettualità patavina degli anni Cinquanta e Sessanta, è figura ancora amata in città. La mostra mette in risalto un operato articolato e pluriforme, muove da sperimentazioni materiche grevi di colore squillante (Il prato verde) dove pian piano ogni figuratività è rimossa (Muri in ghetto e Alberi di luce) sino a giungere ai monocromi, densi di pece rappresa.
Maria Paola Forlani