Organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte in collaborazione con Boza/Palais des Beaux Arts di Bruxelles, “Zurbarán (1598 / 1664)”, a cura di Ignacio Cano con la consulenza scientifica di Gabriele Finaldi, e allestita a Palazzo dei Diamanti dal 14 settembre al 6 gennaio 2014, è la prima mostra in Italia dedicata a questo protagonista dell’arte barocca spagnola e della religiosità controriformista della Spagna seicentesca del “Siglo de Oro”, con oltre 50 opere provenienti da musei e collezioni private europee e americane.
«La tranquillità dei campi, i cieli sereni, il mormorio delle fonti, contribuiscono non poco acché le muse più sterili si mostrino feconde e offrano al mondo creature che lo empiano di meraviglie e di gioia», scrive nel prologo del suo Don Chisciotte Miguel de Cervantes. Ed ecco ciò che fece Francisco de Zurbarán con la sua pittura realista, neocaravaggiesca e spirituale al tempo stesso: avvicinare l’umano al divino, passando l’esistenza in gran parte all’ombra dei monasteri a dipingere soggetti religiosi, a condividere con i monaci, in un lungo processo di integrazione e immedesimazione, fatiche e sensazioni quotidiane. Muovendosi dall’Estremadura all’Andalusia, dalla provincia alla capitale, spostandosi tre volte, avendo dieci figli, conoscendo l’agiatezza, la solitudine e gli orrori della peste. Maestro di una pittura fortemente radicata nella realtà delle persone e delle cose, Zurbarán è stato al contempo un artista intensamente spirituale, con personaggi che ci rivelano un’autentica vita interiore e dove persino gli oggetti assumono significati altamente concettuali. Il suo pennello si carica di colori densi e vibranti per descrivere dettagliatamente volti e panneggi, arcangeli e santi, soldati e pastori, paesaggi rocciosi e ceste di pane, ma anche ombre cupe gettate su pavimenti di pietra e strabilianti bagliori. «Tutte le sue figure sono eseguite in scala uno a uno, cosicché lo spettatore viene interpellato direttamente e invitato a riflettere sulle virtù della abnegazione, dell’amore verso gli altri, della contemplazione dei misteri della terra» (Gabriele Finardi).
Zurbáran ama i concetti paradossali, alla maniera di Cervantes e Calderón de la Barca, in cui il sogno e la verità si intrecciano e le apparenze stanno a indicare verità più profonde. La semplicità della sua formazione ha avuto rispetto del suo temperamento malinconico e selvaggio; la sua opera conserva sempre un accento di semplicità. La curva così variabile della sua produzione indica che egli ha dipinto solo per rispondere ad un istinto profondo. Inoltre, negli stessi temi riferiti al Vangelo o alla vita dei santi, con estroso senso della realtà produsse oggetti e particolari di carattere profano. Anche se resta vero il fatto che nessun altro pittore come lui ha dato tanto spazio al mondo chiuso e riservato dei monasteri. È riuscito a trasporre in pittura la variegata gamma di abiti, di volti ed espressioni, le atmosfere e lo spirito delle celle e dei chiostri dei diversi Ordini – gesuiti, certosini, francescani, domenicani, mercedari, trinitari, geronimiti – che affollano la Spagna della Controriforma. Un microcosmo quello di Zurbáran che incomincia a delinearsi attraverso i domenicani, i primi a Siviglia a proteggere il giovane artista. Tutte le pitture che li riguardano sono giocate sulla stessa formula che prevede da un lato un certo trionfalismo, dall’altro soltanto singole figure in estatica contemplazione.
Ma è nella figura di san Francesco, vissuto e interpretato, dall’artista, in modo del tutto personale in circa una quarantina di tele, che diventerà pregnante motivo di riflessione profonda sia religiosa che umana. Lo raffigura sotto le spoglie virili di contadino o come uomo ormai maturo segnato dalle fatiche e dal dolore, dalle rughe e dalla barba folta o gli attribuisce, ispirandosi al Greco, un ruolo “amletico” che medita tenendo un teschio tra le mani. Ma in realtà, più che francescani che predominano invece nell’arte di Murillo, gli ordini favoriti di Zurbarán, quelli che ha interiorizzato con maggior intensità e che si è sentito più libero di esprimere sono tre: i mercedari, i certosini e i geronimiti. Prendiamo la “Visione della Gerusalemme celeste” (1629- Museo del Prado), presente in mostra. Il dipinto appartiene al famoso ciclo della Merced Calzada, dedicato alle storie di San Pietro Nolasco, fondatore dell’Ordine, comprendente in tutto ventidue tele. Nel buio della scena Zurbarán rivela allo sguardo dello spettatore le figure di San Pietro Nolasco e dell’angelo che mostra al santo la Gerusalemme Celeste. C’è l’apparizione nell’apparizione, la scena nella scena. E occorrono allora all’autore gli elementi, quali lo scanno, da cui si è appena alzato il santo per addormentarsi sul tavolo, il libro aperto sul bordo… Fra questi elementi costruisce con luce le due figure dei protagonisti: con tipici “bianchi”, che risaltano l’ocra, sui i grigi, sugli azzurri, quella di San Pietro avvolta nel saio; con l’accordo dei rosa della veste dai riflessi violacei, e dell’azzurro del manto, quella dell’angelo che alza il braccio verso la visione che si apre in alto sulla sinistra del quadro. Tra le nuvole che si spalancano sullo scenario della visione appare la città santa dalle cui porte, come raggi, si irradiano le strade: il sovrannaturale, il miracolo è nello squarcio delle nuvole che si aprono nel buio dello sfondo, in quella scena che rappresenta il sogno liberatorio del santo e che illustra l’analogia tra il trionfo della Gerusalemme Celeste e il destino che attende l’ordine mercedario.
Un grande artista Zurbarán, che non ebbe però gran seguito in patria, dove già in vita fu messo in secondo piano dall’accattivante Murillo o dall’appassionante Valdés Leal. Ma che trovò invece molti discepoli nel Nuovo Mondo. È a partire dal 1640 difatti che la sua arte arriva in Messico e in Guatemala, Colombia, Argentina. In Perù e Bolivia, dove trova chi lo segue la personalità dominante di un meticcio: Pérez de Holguín.
Maria Paola Forlani