Il fenomeno del lavoro precario ha suggerito a quel finissimo autore cinematografico che è Gianni Amelio, l’idea di un personaggio in parte realistico, ma in parte, la parte preponderante, idealizzato: dotato cioè di tali virtù da far dubitare lo spettatore che un uomo così angelico possa davvero esistere. Si sa che il lavoro serve a guadagnarsi da vivere, ma spesso forma anche un’identità: spesso ci si definisce in base al lavoro che si fa, tanto che la perdita di un lavoro può comportare uno smarrimento esistenziale.
Ora, il protagonista del film di Amelio (si intitola: L’intrepido) è un uomo di mezza età che un lavoro fisso non ce l’ha più da chissà quanto tempo. Campa alla giornata sostituendo altri lavoratori. Si trova così un giorno a fare il manovale, un altro l’attacchino, poi il bibliotecario, il commesso, il sarto, il badante, il fattorino, il venditore di rose, e così via. Ma tale precarietà, condotta fino al paradosso – l’uomo passa a volte da un lavoro all’altro con il ritmo rapido di una comica – ha certo come conseguenza pratica l’indigenza (tanto che è costretto a chiedere soldi in prestito al figlio), ma non sembra comportare per lui nessuna frustrazione.
L’uomo è come privo di quella componente psicologica, quasi universale, che è la ricerca, anche attraverso il lavoro, di un’affermazione di sé, di un prestigio sociale, o almeno di un’identità.
Pur essendo un uomo pratico, continuamente in azione, ha rispetto al mondo quel rapporto puramente contemplativo, disinteressato, che si attribuisce agli artisti. In fondo, per lui, applicarsi a tanti lavori è un modo per attraversare la città – la città di Milano – osservando dall’interno tanti ambienti e conoscendo tante persone: sempre affabile, remissivo per bontà e non per debolezza, generoso, ma anche, in fondo in fondo, geloso della propria solitudine, del proprio distacco da ogni relazione sociale regolare e duratura. (È separato dalla moglie e si incontra saltuariamente con il figlio già grande).
Può ricordare certi personaggi di Marco Ferreri, che in certi suoi film descriveva una società in decomposizione, in una crisi apocalittica; e gli eroi, uomini o donne che fossero, erano individui privi di ambizioni, emarginati, insofferenti alle norme sociali, buoni, a loro modo anarchici.
La malinconia che proviene da una società in disfacimento, raggiunge anche il personaggio del film di Amelio, ed è anzi forse l’aspetto più realistico della sua personalità. Ma il film di Amelio (a differenza forse dei film di Ferreri) non è pessimistico. Qualcosa strappa il protagonista dal suo intimo distacco dal mondo: l’incontro con alcuni personaggi in crisi, che egli comprende, che vorrebbe aiutare, ma che non riesce a salvare (quasi un idiota dostojevskiano): una ragazza a cui la precarietà del lavoro genera una tale angoscia da condurla al suicidio; un bambino coinvolto, pare, in un giro di pedofilia.
Riesce però forse a salvare la persona che ama di più: il figlio, un musicista di talento, ma colpito da una crisi che lo paralizza, a cui riesce a infondere il coraggio di esprimere le proprie capacità.
Comunque: il personaggio del protagonista è “forte” e originale; c’è un sentimento che percorre tutto il film – quello di una strana felicità che si genera un po’ misteriosamente dentro la desolazione della crisi – che gli dà spessore e unità; e l’attore, Antonio Albanese, è fuso con il personaggio come raramente accade.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 9 settembre 2013)