Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
(Sal 90,12)
Computare il tempo calcando le orme dei giorni, così da giungere alla sapienza del cuore, è esercizio del salmista che sa il mestiere del poeta – il salterio infatti fa parte dei libri poetici della Bibbia. Con la parola della poesia il salmista cerca un volto e supplica: «Non nascondermi il tuo volto», poiché «di te ha detto il mio cuore “cerca il suo volto”». Ogni cuore cerca un volto per leggervi i segni dell'eterno nel tempo, per immergere il suo tempo nell'eterno e così trovare senso, significati nuovi al suo vivere; si è tutti alla ricerca di un incontro che liberi dalle solitudini e dalle tenebre esteriori e interiori e che salvi dall'inutile e dalla morte.
La parola della poesia, come dice K. Rahner, ha la capacità di mettere in ascolto, di fare udire le parole forti, le parole generatrici; la poesia ha la capacità di unificarci, perché ogni sua parola è “pensiero incarnato”, allora queste parole poetiche e primordiali sono come un sacramento originario della parola del Dio che si abbassa, si fa presente nel mondo ed al tempo stesso lo trascende. Le nostre parole più vere, in questo movimento, vanno oltre il loro significato feriale e si salvano dalla banalità e dal logoramento; la parola della poesia è capace così di «dire veramente come le cose nell'intimo mai s'immaginarono d'essere» (R. M. Rilke, Elegie a Duino, IX); parola capace di dire l'infinito nel finito.
Questo sconfinamento della parola poetica oltre se stessa fa luce sullo sconfinamento del salmista oltre se stesso, quando ascolta il suo cuore che cerca il volto Dio; sconfinamenti che abitano nella trascendenza e sono abitati da Dio.
Nell'incipit dei salmi 39,1, 62,1 e 77,1 si dice che debbono essere seguite ed ascoltate le parole di uno che è chiamato “Iedutùn” e che Agostino, nel suo commento, traduce con la parola Transiliens: ‘colui che attraversa’ o ‘colui che li attraversa’. È la figura stessa del salmista che viene così rappresentata quando intraprende nel suo cuore il santo viaggio, quello verso Gerusalemme, per giungere oltre ogni tappa a riposarsi in Dio, presso il suo tempio come «la rondine che fa il nido presso i suoi altari». Transiliens è ciascuno di noi quando decide di camminare con il cuore sulle vie indicate dalla parola di Dio e scopre che la via di Dio è quella dell'uomo e l’umano di Gesù ne è il battistrada, ma transiliens è pure il poeta quando diviene “colui che le attraversa”, che attraversa le parole accolte e trasportate oltre se stesse dall'ascolto del cuore che intende, dall'ascolto dell'altro che sente, le fa vivere nuovamente in sé e così le riscatta dal loro destino – «l'assurda illusione di intuire una verità scordata per sbaglio dal cielo o di bere una goccia di eternità»: «finalmente sogno», ma sogno vero «oltre le sillabe stillate».
Con tali pensieri mi sono accostato a questa raccolta dei testi poetici di Rita Montanari e li ho letti come fossero le pagine di un libro delle Ore, un Salterio sapienziale. Li ho sentiti come salmi quotidiani restituiti alla memoria dal tempo passato, a volte in forma di supplica, altre di lode, ora grido, ora ringraziamento, ora memoria dolorosa o ricordo pacificante e dolce, “pensieri incarnati” che aiutano a proseguire il viaggio. Tutti i salmi, come le parole di questa raccolta, non sono mai disgiunti né disincarnati, sono invece storie vissute che, di volta in volta, hanno computato le “ore liete” e le “ore tristi”, una “danza delle ore” nel calendario dei giorni che attraversano il tempo di ciascuno.
Vola a fior di terra una coccinella,
intona un cuculo il suo canto,
verso ai rintocchi delle campane.
È l’ora dei tuoi vespri.
La sensazione provata, salmodiando queste pagine non tutte d'un fiato, ma al modo dei salmi, ai primi Vespri della domenica, che guardano retrospettivamente, non appena il giorno che è passato, ma tutti i giorni della settimana per raccoglierli anch'essi in orazione, è stata quella di sentirmi a poco a poco attorniato dalle immagini raffigurate nei dipinti di Giuseppe Mentessi: “Ore liete”, “Ora triste” e “Pace”: «Il palpito dell’universo dai tronchi e dalle vette bisbiglia il bisogno di pace». Davanti al dipinto che titola Panem nostrum quotidianum, ispirato alle epidemie di pellagra, alla sua drammatica desolazione di fame e di povertà, sembra di stare di fronte ad una disperazione silente, guardando l'orizzonte del campo di granoturco e, nell'angolo, un piccolo campanile che sembra sostenere la speranza della madre che tiene in braccio la figlia, una Pietà quasi arresa.
Sono giunte poi, come «quando l’immagine scivola dall’anima e si disegna negli occhi», le immagini delle opere del pittore Gaetano Previati: dapprima l’armoniosa luminosità e circolarità de La danza delle ore, dipinto ispirato al terzo atto del melodramma della Gioconda di A. Ponchielli; poi, inattesa, l’immagine del Trafugamento del corpo di Cristo dove, tra ombra e luce, si crea una lacerazione netta che squarcia il piano pittorico e lo divide: il piano nella luce del cielo, al tramonto, su cui si stagliano tre croci e quello della terra oscurata, dove ombre chine si nascondono allo sguardo quale dolente corteo che porta il peso del riscatto del mondo. Ed ancora, per contrasto, s’impone allo sguardo stupito l’immagine della pala dell’Assunzione, gioiosa salita di mille festose colorazioni, fascio cangiante di filamenti colorati che, nell'ascesa, sembrano cercare oltre la figura stessa un punto di convergenza del tempo verso l'eternità: le ore e i giorni ricapitolati nella luce dell’Assunta, la nostra umanità alla fine redenta.
Finalmente a queste piume del tempo, come figure leggere e sospese e tuttavia cariche di senso, se ne sono aggiunte altre, quelle risuscitate ad ogni stico dalla lettura di questa singolare “liturgia delle ore”, che sono i testi poetici di Rita Montanari: «I rintocchi delle ore risuonano ovattati tra le nubi sdraiate sulle cime/ I prati ancora addormentati mantengono fedeli la promessa di sempre nuova vita».
Il tempo si fa orma quando i giorni diventano nella vita carne e sangue, tracce e testimoni della vita buona che orienta verso l’oltre; piume del tempo sono le parole in cerca di senso che varcano i confini conosciuti, che fanno la spola «dall’una all’altra sponda» del tempo: «L’argine tace migliaia di vite vissute e incise sui rami. Trascina il fiume al mare i misteri racchiusi tra le sponde». Non è una diserzione ma un ritrovarsi “qui ed ora”, un «presente del presente», direbbe Agostino, in cui stanno sospesi, a volte danzanti a volte raccolti, il “presente del passato” e “il presente del futuro”: «Sto sospesa tra il prima l’ora e il dopo e già un nuovo domani sospinge nel baratro il silenzio. Avverto nuovi segni oscuri alla lettura».
Piume del tempo sono i volti racchiusi nello specchio della pettiniera della nonna: «La cornice racchiude oltre cent’anni di volti di sguardi di sogni chi sa quando andati in frantumi», ma per ricomporsi altrove nuovi. «Anche il tuo volto …appena il tempo di guardarti che sei già cambiato. E cerchi nello specchio l’immagine di ieri». Ma invano, essa è ormai passata poiché è quella dell’uomo esteriore che va disfacendosi, tuttavia sarà possibile volgere lo sguardo allo specchio della coscienza che ingiunge: «Alzati!!! È l’ora!!!» e si vedrà lo spazio dilatarsi in avanti ed in alto: è il luogo, il movimento dell’uomo interiore che si rinnova di giorno in giorno verso una piena conoscenza.
Confine, argine, cornice, porta, stagione, tutti simboli che l’autrice convoca a sé per dare forma e far risuonare l’eco di colui che attraversa e che, nel passaggio, si dispone all’irruenza, allo scoppio del nuovo. Forse che sia alla fine un disporsi alla Pasqua?
Il sole soffia l’ultimo saluto
limpido e sfumato di un rosso addio.
La vita è passata a passare.
Le piume del tempo come «le lancette dell’orologio corrono impazzite a ritroso, fòrano la valanga d’anni di mesi giorni battiti minuti fino a scoppiare il cuscino di piume». Uno scoppio e sembrerà che tutto si oscuri e finisca… «la nostalgia delle stelle lontane all’alba della vita», «le piroette» delle piume del tempo come «milioni di soffi senza memoria», come «fiocchi di neve a giocare nel sole,/ zampilli impazziti schizzati all’in su». Ed invece sarà tutto compiuto: un passaggio si è aperto che farà entrare nel nuovo, l’ingresso alla nostra Pasqua, che ci farà nuovi.
Eterno, acqua eterna
come il tuo gesto ad ogni nuova vita.
Perenne lo stupore del Tuo
rinascere ogni volta
al male della terra.
Grigia e cieca al mistero
la nostra muta risposta.
Stasera il cielo ha gli occhi tristi
di un bambino deluso e sconsolato.
Il secondo stico di questo testo è segnato profondamente da un disincanto muto: si sta senza risposte di fronte alla impenetrabilità del mistero, è un disincanto che attraversa un po' tutta questa raccolta: «Un sentimento senza nome un risucchio del cuore un’eco che si spegne implosa nell’anima. E non sa di risposte».
Ed ancora, in forma di domanda: «perché accendi gli occhi quando non sappiamo ancora aprirli e li spegni quando non vogliamo più chiuderli per sempre?»
Anche il salterio conosce la delusione sconsolata del salmista di fronte all’eccesso del male, alla prepotenza e all’arroganza degli empi che fanno macello con la vita dei giusti; gli occhi tristi, orfani di consolazione sono pure quelli del salmista di fronte al lasciar fare di Dio, anzi all’aver abbandonato il suo popolo consegnandolo ai suoi oppressori: «Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo rinnegato la tua alleanza. Non si era vòlto indietro il nostro cuore, i nostri passi non avevano abbandonato il tuo sentiero. Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello». (Sal 44,18.19.23). Eppure la nostra incapacità di risposte, anche dopo ogni cocente delusione, non continua forse ad attendere, nel punto più profondo e nascosto del nostro disincanto, come un lievito paziente, come un pugno di sillabe e vocali sovrapposte, mescolate e impronunciabili? Forse sono in attesa di un salmista che le ricomponga, facendole risuonare insieme al suo dolorosissimo grido: «Svégliati! Perché dormi, Signore? Àlzati, vieni in nostro aiuto!»
Non si tratterà forse allora di rilanciare il primo stico oltre il secondo, pronunciandolo di nuovo? Sentiremo così ancora parlare di un “perenne stupore”, della possibilità di rinascere ogni volta dal male della terra. Non sarà che lo stupore, quando lo si perde, dovrà essere di nuovo ritrovato? o meglio non si dovrà dargli tempo perché sia lui a trovare noi e la vita possa nuovamente dischiudere il suo incanto? «Care antiche voci ancora chiare, avervi avuto qui e poi perduto è il vero smacco del respiro, ogni minuto ogni giorno ogni sospiro»: il respiro fiaccato attende, ma il sospiro, incalzato dal movimento dei minuti e dei giorni, attirato dalla eco delle voci chiare, si è messo nuovamente a cercare.
Si va tutti, nell'attraversare il tempo, con il movimento del cuore, nel ritmo del contrarsi e del dilatarsi; quello che si lascia o si perde si ritrova. Si ascolta prima, si dà voce poi, ora alle risonanze dell’incanto ora alle risposte mute del disincanto. Come nel salterio si passa dal sentirsi perduti, abbandonati all’essere ritrovati e salvati e il grido: «Mi attanaglia un furore disperato perché non so più niente e niente capisco di questo atroce nostro mondo… Perché mi guidi spesso sul ciglio e poi là mi abbandoni?» si muta in lode: «Quasi un manto di bucaneve al vento intonano umili un canto al nuovo sorriso dell'alba». Solo «la preghiera della notte in un soffio di vento inghiotte tutti i tuoi rimandi. Domani all'alba il sole...»
Ringrazio Rita Montanari per avermi offerto l’opportunità di meditare ancora una volta sul tempo, dopo i miei primi passi con p. Teilhard de Chardin. Appresi da lui la “preghiera nella durata”, da dirsi quando devi affrontare le ore tristi ed attraversare un tempo senza qualità, privo ancora di significati, un tempo insensato.
Pregare nella durata, quando questa si caratterizza come un subire, un invecchiare, un aspettare, un distaccarsi, significa un affidare il tempo ad un senso che è ancora oltre, che il futuro racchiude, significa pure riguadagnarne la qualità, perché lo si mette di nuovo in relazione ad un Altro che è il custode dei significati ultimi. La preghiera, direbbe p. Teilhard, divinizza anche le passività che mortificano e fanno diminuire la nostra vita, opera una trasfigurazione non solo del tempo ma del mondo.
Si sta allora, direbbe Rita, come «nuove pagine bianche ad aspettare pazienti l’inchiostro di domani: barlumi schizzi o disegni del tempo a venire. Non è dato sapere».
Per lei una “pagina d’inchiostro di ieri”, scritta un giorno che salivo verso il ghiacciaio dell’Ortles con i ragazzi della parrocchia; fu allora che imparai il segreto del tempo:
Salire per incontri
e impari così
dalla montagna
il segreto del tempo.
Un momento ti libera
un momento ti imprigiona
legato e sciolto
sotto e sopra
come in una lotta.
E tu lotti,
e ferito rimani
come Giacobbe al guado.
Impari la pazienza: ferita d'anca
ma più ancora
incontri la presenza,
nel suo volto il tuo,
ed un nome nuovo.
Andrea Zerbini
Rita Montanari, Le piume del tempo
Este Edition, 2011, pp. 88, € 10,00
Rita Montanari. Già insegnante al Liceo scientifico “A. Roiti” di Ferrara, coltiva da sempre l’amore per la parola, in particolare per la parola poetica. Ha pubblicato: Indagine sul Neofascismo in Emilia Romagna 1969/1975 (Regione Emilia Romagna, 1975); Rami di vetro (Genesi Editore, 1988); Cara sorella, caro fratello (Rosellina Archinto, 1990 e Terre di mezzo, 2006); Sulla porta del mondo (Book Editore, 1992 e 2003); Dal niente che resta (Book Editore, 1995); La coda dello scoiattolo (Book Editore, 2005); Giocando a calpestarci l’ombra (Este Edition, 2007), L’acchiappanuvole (Este Edition, 2010). Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi letterari.