Scritti a Edimburgo nel 1993, quando Barolong Seboni era Poet-in-residence presso la Scottish Poetry Library, dove “Tessa Ramsford e il suo staff gli crearono l’ambiente giusto per iniziare e completare alcune poesie chiave di questa raccolta” come afferma lui stesso, Windsongs of the Kgalagadi, pubblicati nel 1996, ripropongono nel titolo la poesia che chiude le tre sezioni: Windsongs, Sunsongs, Night: Nocturne. Alcune poesie della raccolta sono già apparse in pubblicazioni precedenti.
Non è la prima volta che Seboni scrive fuori del suo ambiente. Degli anni in cui fu presso l’Università del Wisconsin (1984-1987) è la sua prima raccolta Images of the Sun, pubblicata dal Programma di Studi Africani dell’Università di Madison, in un periodo che corrispose ad una “intensa e inflessibile sperimentazione di struttura, immagine, stile”.
Se gli era sembrata ironia della sorte che nel vento gelato del Wisconsin lui ritrovasse il Kalahari, è successa la stesa cosa nel freddo autunno di Edimburgo.
Alcune delle poesie presenti nella raccolta completa sono del periodo di lavoro al Mater Spei College (1978-1983), dove insegnava Inglese, Geografia ed Educazione Morale, anni che segnarono, lui dice “lo sviluppo e il consolidamento come poeta, un poeta urbano”: benché egli avesse attraversato i confini dello Zimbabwe, la Rhodesia coloniale, per celebrare l’indipendenza del paese nella capitale Harare, in primavera, mentre cadevano i petali della jacaranda e il paese era sotto la pressione della guerra di indipendenza, il suo ritorno a Gaborone lo portò a dare una immagine istantanea, attraversata da un forte commozione filiale, della “giovane città che si svegliava… ignara di sé ma sonnecchiante dentro l’autoconoscenza”.
In Windsongs of the Kgalagadi Seboni conferma ciò che ha già ammesso a proposito di Images of the Sun: “cerco di catturare in ogni poesia un certo aspetto di vita come illuminato da un sole onnipresente… nel tentativo di cercare un’immagine che sia un’esperienza universale… che può essere resa particolare”. Penso che proprio questo sia il nucleo della poesia di Seboni, in un continuum che va da Images of the Sun, passa per Windsongs of the Kgalagadi e approda a Lovesongs. Elemento trasversale è il recupero della memoria dei padri, del loro orgoglio nazionale. È un processo di riscoperta delle radici che diventa riscoperta e costruzione di sé, con un ritorno quasi nel grembo materno della sua tradizione, in una esigenza di dignitoso riscatto della propria cultura dopo il tentativo dei bianchi di cancellare tale passato. Perché “un popolo senza un passato è un popolo perso”.
Il recupero delle tradizioni e della cultura orale era iniziato già in quella che definisce “la poesia di protesta”, che, lui dice, “caratterizzò i primi cinque anni circa della mia scrittura, quando studiavo all’Università del Botswana e dello Swaziland fino al 1980, che rifletteva la radicalizzazione e la politicizzazione venuta come conseguenza della nostra interazione con gli studenti sud africani esiliati, attivisti e scrittori che divennero i nostri mentori. La maggior parte di questa poesia era volta alla recitazione e allo spettacolo… fu un’arma che assestò una raffica mortale al razzismo e alla oppressione. Noi componemmo per la consunzione della società nella pubblica arena, accompagnati da tamburi e musica”.
Windsongs of the Kgalagadi sono poesia profondamente evocatrice, carica di suoni, rumori, odori, umori, che ci porta in una terra mangiata dal sole, “il posto del Sole che beve dalla Terra e crea la grande (madre) sete”, dove la boscaglia arida, il bush, non può fare ombra, il suolo è inciso da ferite profonde, le bestie cercano ansanti una pozza, il vento porta solo illusioni di pioggia (The grass is no longer singing). L’acqua è agognata dalle umide lingue dei vitelli, è preziosa nell’attenzione delle donne, splendide silhouette stagliate contro il cielo, madri che portano quotidianamente l’acqua sul capo senza versarne una goccia. Gesti da cui dipende la vita (Woman’s world) e non solo nel Botswana. La siccità è chiusura alla speranza, il linguaggio trasuda la violenza di questo cielo sterile di pioggia (Drought).
La figura femminile si carica di pathos nell’immagine di una madre con la bambina attaccata dietro la schiena, in un respiro unico, lei solenne nel suo largo copricapo Herero, la bambina che starnutisce. La madre la benedice: “Thuthuga o gole”, mentre sul confine tra Namibia e Angola “cadono cose con rumore sordo” (Namibian woman and child).
Appartiene a una donna la responsabilità della cerimonia del nome, nella capanna centrale del Kgotla: “La vecchia matriarca entra nella capanna./ Agli uomini è proibito entrare o toccare la bambina/ perché hanno piedi e mani “caldi”/ Di impurità dalle visite/ di numerosi altri recinti/ fuori dell’immediato Kgotla” (Naming ceremony).
Anche Molepolole è una grande madre, la città del coccodrillo, riferimento filiale alla tribù alla quale Seboni appartiene, figura amica e familiare: “Molepolole distesa nell’ovest/ come pelle di bufalo lasciata d asciugare/ …o potessi io sentire/ il tocco caro delle tue mani squamose,/ potessi sfregarmi contro la cava del tuo corpo/ come un gatto smarrito contro il suo padrone”.
Una vecchia cerca la speranza di pioggia nel “cielo che brilla vuoto” (Drought). Una donna adirata e affamata attende il marito a sera, che torna “con il cuore leggero/vuota la tasca” (Jwaneng weekend), da una giornata di gioco e di bevute dalla zucca, nella città diamantifera di Jwaneng.
Sono molte le figure femminili che fissano le radici di una cultura, femmine madri, nutrici come la Terra.
Seboni sa leggere oggettivamente il passato coloniale e accettarlo nella sua esperienza quotidiana, ma quando recupera la voce della cultura locale ne è un fiero cantore e la trasporta nel tempo e nello spazio. Conosce bene il suo obiettivo di poeta: deve tracciare le linee etiche per la sua gente e fissare la storia nella mente di tutti, per il loro orgoglio nazionale. Sa anche come il suo paese sia riuscito a vincere la sfida del dopo colonialismo, in una democrazia ben organizzata su un sistema tribale.
Queste due anime di Seboni non sono in lotta, coesistono e si alimentano a vicenda, perché ad una cultura è legato emotivamente, all’altra razionalmente. Ne può essere simbolo Dancer, la giovane danzatrice nera che si sposta di villaggio in villaggio, immagine scultorea di provocante sensualità. È la libertà e l’istinto, il fascino pulito, la sicurezza innocente contro la “civilizzazione occidentale” che dà regole e chiede razionalità.
Se c’è sofferenza per l’ampliarsi del bush, allo stesso tempo c’è la consapevolezza di un’economia basata sui diamanti. Scoperti, lui afferma, dopo la fine del colonialismo (in: Why write what I write), fanno luccicare le città diamantifere, Jwaneng, Orapa “che sta come un diamante”.
Alcune poesie politicizzate come “Il giardiniere appassionato alla donna”, una satira de “Il pastore appassionato al suo amore” di Christopher Marlow, presente in Windsongs e Lovesongs, appartengono al primo periodo della sua scrittura, fino al 1980, “al culmine della discriminazione razziale e dell’apartheid in Sud Africa”.
Così arriviamo con lui a Soweto, che ha conosciuto anni di massacri dal ’70 al ’93, e Sunbleed insieme a Night Knife ne esprimono la violenza: “Nelle sere/ le donne di Soweto/ con occhi arrossati/ piangono/ perché attraverso il velo di fumo/ densodipus/ il loro sole/ sanguina”.
Seboni vuole la giustizia sociale, in un’equa composizione dei contrari. Lo esprime anche sulle colonne del Botswana Guardian, su cui scrive e che “usa anche come una cronaca in diretta sul linguaggio e le sue relazioni con la politica, la letteratura, la società”.
Lovesongs raccoglie poesie scritte tra il 1976 e il 1997, pubblicate nel 1998. Sono un canto d’amore grande come il suo cuore, un amore viscerale per la sua gente.
In Lovesongs lui si definisce “il nero canto d’amore”. È un amore che, pur partendo dalla figura femminile, lo travalica, acquistando un valore universale. In un contrapporsi continuo di opposti: Amore è unito a Morte, ma in un superamento realisticamente tragico del mito di έρος e θάνατος: “noi ci amiamo/ nell’ignoranza/ e alla nascita/ una terribile/ nuova morte/ è generata” (Aids).
È amore come complementarietà nero-bianco, in una fusione di opposti, perché la differenza può diventare crescita, col risultato di un chiaroscuro che annulla i contrasti. Solo se ci alimentiamo del contrasto noi possiamo crescere (Black and white II). L’amore è l’unico strumento per guarire questo mondo insanguinato, ma solo se va oltre la fisicità e riscopre i sentimenti (Hole): “un amore/ …senza/ anima/ è solo/ un profondo/ vuoto/ buco/ nel/ cuore”. Con questa disponibilità ad amare si può scoprire anche la pietra che brilla in mezzo alla spazzatura (Ghetto Love).
Nella poesia di Seboni c’è una vasta comprensione della storia e degli eventi, un tocco rapido che rivela una analisi attenta e puntuale dei fenomeni sociali, culturali, comportamentali.
Il Baobab, albero simbolo di longevità ed energia, che accoglie dentro i suoi rami, forza della Natura, oltre ad essere un inno alla sua terra, è una splendida metafora dell’amante che accoglie e rassicura, ma al tempo stesso si nutre della forza dei viticci della giovinezza: “Tu sei il giovane rampicante/ che fiorisce sulla forza/ del mio tronco e ramo./ Vieni, coprimi con i viticci/ della tua giovinezza/ spargi il tuo verde intorno a me/ Cibati delle mie solide radici/ così da crescere anche tu fuori del tempo”.
Nella poesia di Seboni abbiamo una frequente passaggio di codice, rimanendo l’Inglese la prima lingua che usa, ma completandosi con espressioni Setswana: gli serve il bilinguismo per “mostrare la ricchezza che può derivare dall’incontro di due lingue” che conversano. Egli dice: “Nel mio atto di scrivere le due lingue per me si fondono e diventano una, quasi istantaneamente e simultaneamente, forse non nel pensiero, ma definitivamente nello scritto. Le strutture emergono e si sovrappongono l’una sull’altra senza opporsi, piuttosto come in un code-switching”.
La posizione di Seboni nella complessa questione Africana della lingua, è una conferma della inseparabilità di contenuto e forma: la lingua locale deve essere presente insieme alla lingua del colonialismo, allo stesso modo le tradizioni locali devono sopravvivere insieme alla civilizzazione occidentale.
L’ultima poesia di Windsongs of the Kgalagadi raccoglie tutti i colori e le voci della sua terra. Il vento porta con sé le storie e le voci di un popolo. Passa anche a mugolare tra le rocce di Tsodilo, là dove le incisioni rupestri testimoniano le prime presenze dell’uomo sulla Terra: “Questi canti del vento che soffiano/ dal Kgalagadi/ Sono i canti di nascita/ E i canti di vita/ di un popolo senza età/ divenuto maggiorenne”.
A questo punto si deve provare una punta di orgoglio. Le differenze somatiche, nei suoi versi realistiche e ironicamente esasperate, sono in netto contrasto con la bellezza alternativa dei bianchi. Ma solo il nero mogano “così spavaldamente scuro” (da Lovesongs: Black and White 1) fa splendere intorno ogni cosa chiara, per contrasto e la valorizza, e si valorizzano a vicenda.
Ciò che ci resta di irrinunciabile è la comunicazione, al di là delle differenze di colore, delle diverse culture e del nostro passato. Seboni ricorda un proverbio che dice: “la più grande battaglia è della bocca”. È meglio jaw-jaw, che war-war! È meglio parlare che fare la guerra.
Marisa Cecchetti
Barolong Seboni, Nell’aria inquieta del Kalahari
(poesie selezionate da “Canti del vento del Kgalagadi” e “Canti d’amore”)
In the disquiet air of the Kalahari – Testo in inglese a fronte
Traduzione e cura di Marisa Cecchetti
LietoColle, 2010, pagg. 98, € 13,00
Marisa Cecchetti è nata a San Giuliano Terme (Pisa) e vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato con la rivista letteraria Stilos ed attualmente con Atelier, Erba d’Arno, Il Corriere d’Arezzo e con siti web, come critico letterario. Per vari anni ha tenuto una rubrica di libri su La Nazione, per la cronaca di Lucca.
Tra le sue pubblicazioni in prosa: E cominciò a sognare a colori (Del Cerro, 1998); La bici al cancello (Mauro Baroni, 2002); Maschile femminile plurale (Giovane Holden, 2012). Poesia: Il vuoto e le forme (Del Cerro, 2000); È filo di seta (Del Cerro, 2003); Straniero tu che non mi accogli l’anima (Del Cerro, 2004); Schizzi d’eterno (Ed. d’arte Il ragazzo innocuo, 2006); Cantieri (Del Cerro, 2007); Tibidabo (Ed. d’arte Il ragazzo innocuo, 2007); Nonostante la rosa (LietoColle, 2009); Come di solo andata (Il Foglio, 2013). Curatele e traduzioni: Barolong Seboni, Nell’aria inquieta del Kalahari (LietoColle, 2010); Marisa Cecchetti e Sara Landucci, La storia di Ilaria del Carretto raccontata ai bambini (Del Bucchia, 2010). Alcuni suoi racconti e poesie sono in raccolte antologiche.