Elvira Magro
Yuri e il mistero delle scarpe blu
Booksalad, 2012, pp. 190, € 12,00
E mi faccia un piacere, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione. All'alba lei può fare la strada a piedi. Il primo cespuglietto d'erba su la proda. Ne conti i fili per me.
Quanti fili saranno, tanti giorni ancora vivrò... ma lo scelga bello grosso, mi raccomando.
(L. Pirandello, L'uomo dal fiore in bocca)
“Glioma-fronto-temporo insulare a destra di secondo grado”.
Un tumore cerebrale che Elvira Magro chiamerà Yuri con il quale convivrà fino a pochi mesi fa, poco dopo aver dato alla stampa questo libro che riassume l'esperienza di una malattia e la spinta della ricerca e del continuo, tenace attaccamento alla vita. Proprio questa tensione spinge l'autrice e la malata ad inoltrarsi «verso territori nuovi, rispolverando la mia creatività da strati di convenzione e di adattamento, di omologazione. Volevo guarire non solo togliendo il sintomo, ma trasformandolo e reintegrandolo».
Un risveglio spaesante in una casa la cui mobilia si presentava rovesciata a terra come visitata da “maldestri avventori”, l'automobile che già sulle prime sbanda e urta nel parcheggiare il faro posteriore, un malessere esteso e indecifrabile... poi il medico... il ricovero... la diagnosi... il rientro a casa e l'inizio di una vita che andava strutturata in un ordine nuovo. Tutto andava cambiato, rimesso in discussione in funzione di altri obiettivi in nome di una vita, le cui nuove modalità restituissero dignità, autonomia e spazio di percorso.
E tempo.
Torna inquietante, nelle prime notti da sola, l'immagine della casa dai mobili caduti a terra chissà come, tornano il disordine e la confusione; un'esperienza pre-morte forse a detta di un medico. L'autrice scriverà – «[...] la dimensione di una vita altra di cui l'esistenza propria era stata relegata a pura rappresentazione [...] una forma accelerata e compressa della mia vita contrassegnata dalla percezione del senso di vanità del vivere quotidiano [...] un'esperienza che mi cambiò in profondità e intensificò la mia reazione alla malattia».
Essere capaci di dare un nome alla malattia implica una presa d'atto del cambiamento intervenuto nella propria vita e una continua tensione di disidentificazione dall'invasione del tumore e quindi anche un modo per tenerlo a bada e parlarci, uniti alla volontà di acquisire un lucido equilibrio scevro da autocommiserazione che inficerebbe la parola del sé davanti all'angoscia.
Ed è anche spazialità e autonomia quella che Elvira conquisterà nel perseguire insieme diverse metodologie d'approccio terapeutico che andranno ad integrare la medicina tradizionale. Ne riporta oltre che il racconto anche le fonti, gli autori, gli scritti degli studiosi. «La cosa fondamentale per la quale vivere è trovare il senso della vita in ciò che stiamo facendo, e se non lo troviamo vuol dire che stiamo vivendo secondo una visione della vita stabilita dagli altri». (Campbell, Riflessioni sull'arte del vivere)
La ricerca continua di spazi e tempi che consentano un incessante confronto con se stessa, con Yuri, con la vita precedente a Yuri, diventa segno-parola-scrittura che offre lo straordinario dono di dipanare la matassa ingarbugliata della vita, cercando il bandolo e tirarlo forte per avvolgere un altro gomitolo più difficile forse ma più profondo nell'essenzialità rispetto agli stereotipi che ci vedono spesso teatranti di una rappresentazione discutibilmente recitata.
Molto poche in verità le pagine destinate al dolore ma risuonano come eco agghiacciante dalle pagine del testo all'anima del lettore.
La morte della madre è rimasta come vulnus mai chiuso, consapevole-colpevole di non averla potuta aiutare; poi il furto delle scarpe blu, scomparse dopo l'allontanamento di una delle tante badanti e nel momento in cui l'autrice era riuscita a stare in piedi anche traballante. «Mi sentivo disinvoltamente femminile in quelle scarpe dal tacco perfetto... un recente passato... una femminilità dimenticata...» «Togliere a me, impossibilitata a muovermi, proprio le scarpe con le quali si cammina, si corre, si balla, si mostrano le gambe, si scappa. Non era un semplice furto di scarpe ma cancellare il segno di una possibile rinascita», fino alla diagnosi di sé: «Mi scoprivo aspirante normopata soggetto prediletto dal cancro (Dahlke)... per ragioni diverse [...] coazioni a ripetere non mettevo mai in scena la cosiddetta normalizzazione».
È quindi con una ottica direi radiografica del tumore ed insieme con la sua profonda lettura dell'evento tragico che Elvira Magro riesce ad uscire dall'identificazione dell'ammalata incurabile e donare, non solo a se stessa. illuminanti insegnamenti di vita.
«Se Yuri ed il mondo esterno lo permetteranno ambirei ad abbandonare, come vestiti tolti lentamente, lasciati cadere in disordine, dimenticati sulla spiaggia, per entrare voluttuosamente nelle onde del mare».
All'autrice che ci ha lasciato le parole di Van Gogh nell'ultima sua lettera da Londra al fratello Theo: “per vivere, occorre morire a se stessi”.
Patrizia Garofalo