Non tutti sono d’accordo con l’iniziativa dell’artista berlinese Günter Dennig (1947), l’ideatore dei cosiddetti Stolpersteine, letteralmente “pietre d’inciampo”, destinati a mantener viva la memoria di quanti furono deportati, uccisi o indotti al suicidio durante le persecuzioni razziali dei nazisti. Si tratta di cubetti di porfido di 10 cm. di lato, sopra ognuno dei quali viene applicata una lastra di ottone su cui sono incisi il nome e la data di nascita e di morte – se la si conosce – di una delle innumerevoli vittime dell’Olocausto. La pietra viene poi inserita nel terreno di fronte alla casa in cui quella persona viveva al momento in cui fu prelevata per finire a Theresienstadt, a Auschwitz o non si sa dove. Molti sono scettici di fronte a quest’operazione, altri la criticano apertamente come ispirata dal desiderio di trasformare una tragedia in un business (ogni cubetto è finanziato da istituzioni o privati e costa intorno ai 120 Euro). L’operazione a favore della memoria, partita da Colonia nel 1995, è andata in ogni caso pian piano dilatandosi e ha ormai coinvolto dieci paesi, compreso il nostro: a Roma i primi Stolpersteine furono posati nel 2010.
Personalmente queste pietre mi hanno indotto a riflettere. Camminando per Berlino, dove la comunità ebraica era cospicua, ci si imbatte di continuo in questi cubetti, a volte ancora lucidissimi, perché nuovi o perché ben curati, a volte già segnati dal tempo e difficilmente distinguibili dal resto del selciato. Si presentano con un aspetto esteriore uniforme, ma restituiscono un’identità a quanti nei Lager erano stati ridotti a un numero, tatuato sull’avambraccio a perenne menzione di un’infamia. A volte piazzati singolarmente davanti a un portone, a volte invece raggruppati a ricordo di intere famiglie poi massacrate vigliaccamente, questi sassi, che camminando si cerca per rispetto di non calpestare, non sono pericolosi per i pedoni, perché a inciamparvi non sono i piedi, ma appunto la mente e i sentimenti.
Davanti a ogni nome si legge: Hier lebte (qui viveva) oppure Hier wohnte (qui abitava), e sotto le date ci sono aggettivi o brevi formule che vanno da “umiliato” a “disonorato”, da “privato dei diritti” a “morto nel tentativo di fuga”. Quando vi si trova invece un lapidario “assassinato”, di solito è indicato anche il luogo in cui la vittima fu eliminata. E qui tornano i nomi ormai tristemente noti dei campi di raccolta e di sterminio, sparsi ovunque per l’Europa dopo la folle decisione di estirpare definitivamente dal mondo gli ebrei e con loro altre minoranze etniche (come per esempio i rom) o altri gruppi invisi al regime (fra cui gli omosessuali).
Ci si ferma quasi automaticamente davanti a queste pietre e alle case fui fanno riferimento, di solito edifici pomposi, ricostruiti dopo i bombardamenti secondo i loro aspetto più o meno originale, palazzotti dei cosiddetti Gründerjahere, degli anni dell’Impero Guglielmino, di cui la maggior parte delle persone evocate era suddito. Si tratta infatti per lo più di gente nata nell’ultimo quarto dell’Ottocento e che non di rado viveva nei quartieri residenziali della buona borghesia. Non è un caso che il famigerato binario 17, quello dei treni che trasportavano i deportati verso i ghetti orientali (soprattutto quelli polacchi di Łódź e Auschwitz-Birkenau), partisse dalla stazione della ferrovia metropolitana di Grunewald, ancor oggi uno dei quartieri più chic di Berlino, disseminato di villoni imponenti ed eleganti.
Davanti agli androni delle case di fronte alle quali sono conficcate in terra una o più di questa pietre della memoria, viene da chiedersi come sia stato possibile che nessuno si fosse mai accorto di nulla e che la maggior parte della gente sostenesse di non sapere niente della sorte di vicini all’improvviso scomparsi. Non c’è regime di terrore, di qualsiasi colore esso sia, che non induca all’omertà, e tuttavia non va neppure dimenticato che se è vero che molti, vinti dalla paura, magari dilaniandosi intimamente, mantennero il silenzio, ce ne furono anche molti che, in diverse forme di opposizione, fecero resistenza al regime. Di fronte agli Stolpersteine di Berlino diventa in qualche misura tangibile l’abnormità di quello scempio.