Pier Paolo Pasolini
Il sogno di una cosa
Garzanti, 1962
Pier Paolo Pasolini scrive Il sogno di una cosa dopo Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), dopo le poesie di La meglio gioventù (1954), Le ceneri di Gramsci (1957), L’usignolo della Chiesa Cattolica (1958) e La religione del mio tempo (1961). Narrativa civile allo stato puro, introdotta da una citazione di Karl Marx: “Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa...”. Il lettore capisce subito il pensiero dell’autore, i personaggi sono funzionali alle cose da dire, al fatto che l’uomo ha pressante e indilazionabile il sogno d’una cosa, il sogno del socialismo, della giustizia, della vera uguaglianza, del lavoro per tutti e di una ripartizione dei beni secondo meriti e bisogni, senza lo sfruttamento capitalistico del plusvalore. Pasolini è condizionato dal discorso economico e dalla valutazione marxista della realtà ma non rinuncia a fare poesia, ché quella è la sua vera cifra stilistica. Racconta due anni di vita in Friuli, a Casarsa, il luogo dove ha trascorso adolescenza e fanciullezza, dal 1948 al 1949, attraverso le vicissitudini di alcuni ragazzi del popolo – Nini, Milio, Eligio, Germano – che sognano un mondo dove ci sia giustizia e lavoro. Si sentono comunisti, ma – come diceva Gaber – solo perché essere comunisti è il solo modo per cercare di cambiare le cose e perché pare l’unica idea politica che contiene un sogno di giustizia sociale. I ragazzi emigrano di nascosto in Jugoslavia perché sono convinti che in un paese comunista potranno vivere liberi, lontani da una terra che ha riciclato al potere vecchi gerarchi fascisti. Sarà cocente la loro delusione quando si renderanno conto che in Jugoslavia tutto è razionato, si muore di fame più che in Italia e il lavoro scarseggia. “Quando lo faremo noi il comunismo, lo faremo meglio”, dice uno dei ragazzi mentre medita il ritorno in Italia. Pasolini è tra i primi scrittori italiani a citare le foibe e a criticare il socialismo reale, la concretizzazione di un’idea, il tradimento del sogno d’una cosa. Milio racconta la sua esperienza di emigrato in Svizzera, “un paese dove c’è lavoro e i contadini sono più ricchi dei nostri, ma sono avari, mangiano peggio e non si divertono mai”. La nostalgia della terra natia è forte, sia in Svizzera che in Jugoslavia, le proprie abitudini, le ragazze italiane, i balli all’aperto nei primi giorni d’estate, le feste dopo il lavoro, le passeggiate, sono tutte cose che mancano. La Svizzera è un paese triste per i giovani italiani emigrati, tutti hanno la radio e il telefono, ma dopo il lavoro nessuno esce, si rintanano nelle case e attendono il giorno successivo. La malinconia e il ricordo d’una vita dove si soffriva la fame ma c’era solidarietà, allegria, voglia di stare insieme – era questa l’Italia del dopoguerra, pare passato un secolo! - spinge gli emigranti a tornare.
Al ritorno li attende la lotta per il posto di lavoro, il partito comunista che organizza le rivolte dei braccianti agricoli in Friuli per far applicare il lodo De Gasperi e ottenere nuove assunzioni. È un’Italia simile a quella che dipinge Guareschi in tono scanzonato, anche se Pasolini è più elegiaco, a tratti persino deamicisiano, ma non rinuncia a mostrare situazioni che fanno convivere Stalin e il Crocifisso. Un’Italia nella quale una ragazzina cattolica innamorata di un comunista va dal prete a confessarsi perché crede di commettere un peccato. “Avrà tempo per cambiare idea. Non importa se è comunista, basta che sia un bravo ragazzo”, risponde il prete. Pasolini descrive il mondo della sua meglio gioventù, il mondo lirico delle sue poesie in dialetto friulano, con pennellate descrittive fantastiche, con passaggi cinematografici esaltanti, tra canzoni popolari e le note spavalde di Bandiera rossa. E poi ci sono le donne – Rosa, Pia, Cecilia – i loro amori, i sogni, la lontananza dalla politica, la fede in Dio, la voglia di costruirsi una famiglia e di viverla quella vita che hanno avuto in dote, esigendo il rispetto dei diritti. L’amore tra Pia e il Nini sboccia selvaggio e improvviso proprio mentre Cecilia, tradita dal suo uomo, decide di farsi suora. E poi c’è un finale struggente, commovente, segnato come in Accattone, dalla morte di Eligio, consumato da un male terribile contratto in miniera. Rivede i vecchi amici un’ultima volta e ha appena il tempo di pronunciare due parole: “Una cosa! Una cosa!”. Gli uomini passano ma il sogno resta, sembra dire l’autore, ci sarà sempre qualcuno disposto a lottare per il sogno d’una cosa.
Un romanzo da riscoprire che si legge tutto d’un fiato, un autore che ha dato il meglio di se stesso al cinema e in poesia, ma che sapeva essere anche un abile narratore e sceneggiatore di storie. Il sogno d’una cosa è uno di quei libri che ti restano dentro e che ti vaccinano contro il nulla imperante della letteratura italiana contemporanea.
Gordiano Lupi