Quando hai finito di leggere il libro e ti fermi a pensare «se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori» ha scritto Raymond Carver «finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio», ti trovi scolpite negli occhi immagini di imbarcazioni che sfidano le onde, di capitani che tengono saldo il timone, di bonacce che improvvisamente volgono in burrasca, di lupi di mare col volto sferzato dal vento e dal salmastro. Solo una lunga esperienza di mare poteva narrare così concretamente le situazioni e fissare certi stati d’animo. Ma il titolo della raccolta, Occhi di gubìa di Francesco Belluomini, con riferimento alle «feritoie ovali collocate in alto sulla prua, atte al passaggio delle catene delle ancore», guida ad altri livelli di lettura.
Si parte da giovani, quando è ancora forte il bisogno di presenza materna, «nell’avaro di piccoli anni, fui/ spinto nei verdi solchi dell’oceano…/ ricco dell’abbraccio/ frettoloso di mamma, nel fuggevole/ momento del ritorno». Si ricoprono ruoli da grande «con lacrime di sale» e il ricordo della scuola lasciata introduce la nostalgia di quotidiano.
Non c’è ricerca di avventura in questo affrontare il mare, non è il novello Ulisse che avanza oltre le colonne d’Ercole, “per seguir virtude e conoscenza”. Qui il mare è una opportunità di lavoro, quello che una città come Viareggio ha offerto a generazioni di abitanti. Navi su cui si cresce in esperienza, tanto da poter cogliere imbarchi sempre più vantaggiosi, porti attesi dopo interminabili traversate e dopo lunghe reclusioni «nell’atlantica prigione», che ripropongono immagini di vita familiare non concessa, lontana, e alimentano la nostalgia. C’è un vuoto di affetti che si cerca di colmare con l’alcool e correndo dietro alle sottane, fortunati se un incontro femminile straordinario riesce a cancellare temporaneamente la nostalgia.
Non ci sono eroi tra questi naviganti, anche se lo diventano senza volerlo: è gente che sa che il mare è mistero e pericolo costante e che ricorre, per protezione, anche a oggetti scaramantici: «raramente si sceglie l’avventura/ nel condurre la vita sopra i mari/ che stenti a riconoscere te stesso/ nella bolgia d’espanse sensazioni». Non bastano i giochi dei delfini a prua e la compagnia di gabbiani e cormorani, né le pesche miracolose che traboccano dalle reti, a cancellare il timore, che non fa apprezzare nemmeno la bellezza dei tramonti.
Ma della vita sul mare si colgono lirici momenti di quiete, sia quando «il mozzo negli scampoli di tempo/ si mette a intrecciare le filarse,/ cavandone muscelli per fissare/ i parabordi lungo le murate». O si vive l’illusione di casa, intorno alla mensa preparata da un «cuoco cambusiere di livello» quando «le mani nella pentola che bolle/ attenuano le molte privazioni». O sono immagini come questa: «abbarbettato sul grezzo dello scranno/ fresco di barba e capo reclinato/ nonno nel blu della palandrana/ sembra veleggi in mari di tranquillità/ …mezzo toscano in morza sull’orecchio», che ci fanno dimenticare «l’urlo dei monsoni».
Sono navi dove si impara la vita, nel distaccato e freddo rapporto coi capitani, spesso in mezzo a ciurme di estranei, quando non c’è ombra di compaesano che faccia sentire la sicurezza delle radici. Dove i pregiudizi cadono davanti all’abilità, superando le barriere linguistiche: «è stato imbarcato un portoghese/ che capisce molto poco l’italiano/ ma con le cime in mano è poliglotta». Vita di gente «sballottata dai marosi», che talvolta chiede vittime, come drammaticamente capita sui posti di lavoro.
Il porto fluviale appare allora come un dono, perché riporta a navigare «in compagnia di vacche e contadini/ neanche si navigasse la campagna».
C’è un tendere verso terra, in questi versi che parlano di mare, l’occhio di gubìa rimane a suggellare l’attesa dell’approdo e della sicurezza. E il mare, con tutte le sue burrasche e le sue bonacce, con i le fatiche, le relazioni, gli affetti, le privazioni, rimane simbolo dell’umano percorso di vita. Belluomini lo fissa con un linguaggio concreto, talora apparentemente ostile per l’uso delle terminologia marinara, talora con un ritmo che si spezza, come per l’aggressione di un’onda, senza mai cadere nella retorica dei sentimenti.
Marisa Cecchetti
Francesco Belluomini, Occhi di gubìa
Lieto Colle, 2008, pp. 66, € 10,00