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Patrizia Garofalo. “Il colore del tempo” 
Leggendo (a suo tempo) “La Marina del mio Passato” di Alejandro Torreguitart Ruiz
15 Luglio 2013
 

Alejandro Torreguitart Ruiz

La marina del mio passato

Traduzione di Gordiano Lupi

NonSoloParole, 2003, pp. 60, € 6,00

 

 

«Con la sera

si fiaccarono i due o tre colori del patio.

La gran franchezza della luna piena

Più non esalta il suo cielo abituale.

Patio, inalveato firmamento.

È il patio la pendice

per cui straripa fino in casa il cielo.

Serena

l’eternità si accampa a un crocicchio di stelle.

È buono vivere nel sodalizio arcano

Di un atrio, di una pergola e di un pozzo».

(J.L. Borges, Fervor de Buenos Aires)

 

 

Il tramonto è l’ora del giorno che preferisco.

Mi affaccio e assaporo tutti gli aromi della mia terra. Mi siedo sul mio dondolo di legno davanti al mare, su quello che posso considerare il mio balcone sul mondo. Adesso che sono rimasto solo lo chiamo il posto dei ricordi. Il profumo intenso del frambojant si confonde con il salmastro acquitrinoso delle mangrovie, che nascono sulla riva e si spingono con i loro fusti esili e ritorti sin dentro lo specchio del mare.

Mi alzo e gusto a fondo il sapore del mare.

[...] questo è il mio mondo, penso.

E nonostante tutto non potrei mai tradirlo.

 

Una nostalgia dolcissima pervade il testo di colori, sfumature e... l’odore del mare, è quello che arriva più forte insieme ai ricordi legati ad esso e alla propria terra che prefigurano persino la morte in una melanconia lontana da tumulti, direi silenziosa e gradita quasi tesa ad un ricongiungimento del presente riconciliante ogni momento della memoria. «Non rimpiango niente della mia vita solo perché la sua bocca ha accarezzato la mia pelle». La poesia di Borges, che fa da incipit alla mia recensione, mi sembra appartenere al testo di Torreguitart Ruiz nel cogliere l’esistere anche nella luce della sconfitta, della vecchiaia, del poco che resta e ne rubi come scintille, le luci, i colori, le trasparenze e i rimpianti. «La mia casa e i ricordi. Il mio passato d’avventura e il mio presente di quiete. Adesso niente può farmi del male, perché tutto quello che poteva accadere è già successo». «Non tradire il senso della mia vita. Solo questo conta ormai». «Sono cubano e voglio morire tra la mia gente».

Mentre guarda il suo corpo invecchiato, torna il tempo di quando fin da ragazzino aveva sentito i morsi della fame, lo distrae una statua in marmo de “il vecchio e il mare”, non ne sa niente lui di Hamingwey ma... «Mi piace quella statua, come mi piace il mare. Immagino che sia il mio ritratto e la guardo, ogni volta, al mattino quando esco con il vento alle spalle». Non ci credeva alla guerra, alla rivoluzione; è partito però perché aveva ucciso un uomo ed era meglio che finire fucilato o nelle carceri di Batista e, proprio durante quel periodo, conoscerà una persona vera, l’unica che riempirà di valori la sua vita, l’unica, a parte Clara e i figli, che alla fine avrà amato «volevo dimostrare a tutti che ero un uomo vero, capace di seguire gli ordini di Camillo, che rispettavo come un padre. Un padre giusto e severo come non avevo mai avuto». Le parole nel testo si connotano nel ricordo ma esso, come spesso avviene nelle persone anziane, è “addolcito” dagli anni, desidera ricongiungimenti, tranquillità e pace in una dolcezza che odora di mare, tramonti e gode di particolari momenti del giorno quando le luci appaiono più sfumate e il tempo reale si fonde con quello dell’anima. Mirabile questo autore che riesce da giovane, quale è, a cogliere i bagliori un po’ lacrimosi e sofferenti dei ricordi… e forte, è capacità di leggere un’umanità nelle mutevolezze del tempo. Per questo autore, poeta e scrittore spesso di dolore, avevo parlato di collegamento con Verga anche nella recensione precedente, ed anche in questo testo tornano cose care ad entrambi: il mare (I Malavoglia si conclude con la distesa dell’acqua come unico conforto alla solitudine del giovane N’toni) gli odori di salsedine, il conforto dell’acqua quando le parole degli uomini non hanno più senso d’amore. «Luna che cala su di un bicchiere di rhum» «canto di rane tra le stelle» «alla marina del mio passato mentre il sole brucia capelli e pensieri» e li avvicinano anche alcune modalità, una su tutte, la circolarità dell’opera. Il romanzo si apre con la statua che guarda verso il mare e con essa si conclude il testo… Anche in Mastro Don Gesualdo l’opera inizia con la descrizione delle mani, rovinate dalla calcina, di Gesualdo e si chiude sempre con esse incrociate sul petto. Romanzi circolari quindi che sembrano voler fondere con un ritorno all’inizio, la vita e la morte. E questa morte lui la guarda, si legge, ricorda, ha paura, capisce che è finita (anche in Martin Eden di J. London, la morte è una presa di coscienza vissuta fino in fondo e chiude il romanzo).

la statua di marmo pare in movimento come volesse gettarsi davvero nell’oceano e venire in mio aiuto, l’odore di frambojant attraversa gli ultimi pensieri, mi lascio andare con un sorriso al mio destino. Ma non è il mio sorriso. È il sorriso di Clara…

Siamo di nuovo insieme, amore mio.

Per sempre.

 

Patrizia Garofalo


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