A Iván de la Nuez
Negli anni Ottanta, proprio in seguito agli avvenimenti di El Mariel, mi trasferii all’Avana con mia madre e questa città circondata da mare, trovadores, case con sigilli di ceralacca, terrore per gli atti di ripudio, segreti messi a tacere dalle urla e nuovi amici che, quasi all’unisono, intraprendevano laboratori d’arte in questo luogo di luce intensa, caffellatte, griglie verniciate e tavolinetti di marmo con piccole lampade Art Nouveau, questo porto di ‘Hola y Adiós’, cambiò per sempre la mia vita.
Subito fui allieva del grande Vicente Revuelta, lavorai per il cinema, la radio e la televisione, scrissi e pubblicai le mie prime raccolte di poesia, portai a termine la secondaria, violai la mia verginità posando per un artista dal cognome famoso che mi dettò: “nulla è eterno: né l’amore, né il desiderio, né la famiglia”, negli anni Ottanta scoprii una diaspora insediata nel mio corpo, lo stesso corpo che, nelle sue rotte lontane, scacciava e dava vita a grandi amori, profonde amicizie ed endemici progetti di vita, quelli che nelle notti di trova e musica dal vivo sembravano eterni collettivi, ma che al risveglio negli anni Novanta non si rivelarono altro che solitarie opere di sopravvivenza.
L’intelligenza, la sagacia, le letture, l’informazione e i riferimenti culturali furono la nostra maggiore arma e spirito di seduzione. La moda e le sue scollature arrivarono poi, tra gli scogli, esposte al sole con abbronzanti al burro.
Negli anni Ottanta conobbi la televisione dall’interno, lavorandoci e diretta dai migliori registi e scrittori, giovani creativi che mi insegnarono a riprodurre, con un altro linguaggio, l’immagine di quel paese che ancora ci assomigliava. Loro – Los inundados – furono una generazione, un modo di fare, un mondo che oggi è disegnato tra i miei libri e la mia nostalgia.
Frequentai l’ICAIC quando nacquero i gruppi di creazione. Sono cresciuta con quel notiziario (documentario) che raccontava la realtà sociale di ogni settimana, frammenti di una vita in corso, scene di ciò che stava per cambiare e cambiò. Il cinema degli anni 80 ci restituiva la nostra condizione con talento e ingegno. L’ICAIC di allora fu per me un luogo di culto, non soltanto nell’ambito dell’immagine, seppe anche promuovere, raggruppare e preservare il meglio della musica sperimentale e delle parole di grandi autori rimaste fino a oggi su celluloide.
Negli anni Ottanta ho vissuto la rivoluzione dell’arte contemporanea cubana. Si trattava di gruppi, collettivi, entità che cambiarono l’ideale estetico di un paese che diceva a gran voce: Non lasciarmi andare, con mostre e opere come: “Reviva la revolú”, “Pintura Fresca”, “El que imita fracasa”, segnali che squarciarono l’aria delle gallerie, delle riunioni e dei congressi; ma le autorità non seppero ascoltarli, al contrario, disintegrarono il sistema indebolendo le discussioni con minacce, facendo chiudere gallerie, interferendo nelle immagini per timore dei loro significati, e persino nella vita personale dei loro protagonisti che finirono per fuggire da tutto e da tutti.
Oggi queste opere fanno parte di una straordinaria curatela di idee esposte al Museo di Belle Arti. Questo posto è la mia sala di meditazione e di riflessione, è lì che vado quando voglio ricordare: di dove sono e quali sono le mie coordinate estetiche?
Il mio lavoro professionale e la mia vita adulta si sono sviluppati a tutta velocità nei duemila, posso dire di avere molto più di quanto sognato e perfino più di quanto bramato, ma il mio cuore, i miei amori, il mio improvvisato focolare materno, il mio senso dell’umorismo, del dramma o dell’epica, i miei gesti o le linee asimmetriche che scelgo nei disegni, i punti emotivi, il linguaggio che uso per esprimermi, le ultime utopie politiche, i modi di fare, le illusioni di imbattermi in un essere speciale-sconosciuto a un angolo del Vedado e sorprendermi ancora con un’idea brillante, i sapori preparati nelle conserve della campagna socialista, il colori del cinema francese conosciuti nella Cinemateca, i primi videoclip e i cartoni animati russi, la letteratura che leggevo allora nella biblioteca di casa Alejo Carpentier: da Yukio Mishma alla Yourcenar, i suoni della fondazione di Radio Ciudad de La Habana, la nostalgia lasciata dalle stelle filanti e dai coriandoli nei festosi carnevali, i graffiti sui monumenti, “Para Bailar” alla televisione cubana, gli autobus vuoti alle dieci del mattino e negli orari notturni, l’alba sublime all’Hotel Nacional dopo una lunga giornata con i giurati del Festival del Cinema. Le serate di poesia a casa di Reina María Rodríguez dopo la vittoria del Premio Casa de las Americas. I laboratori di Incisione e Serigrafia. I sabati del libro. Gabo e le sue cronache domenicali su Juventud Rebelde. La Scuola Internazionale di Cinema di San Antonio, luogo in cui tutti desideravamo studiare e in molti abbiamo studiato. La Cuarta Pared, con Carlos Varela che canta mentre lo spettacolo si chiude tra gli applausi nel soggiorno di un appartamento. Lila La Mariposa e El Pequeño Príncipe del gruppo Buendía. Donato Poveda al Café Cantante, a intonare, insieme a Santiago Feliú, la sua indimenticabile Campana de Cristal. SilvioePablo, come un’unica parola o concetto sulla scalinata, nelle piazze, negli altoparlanti e nella nostra quotidianità. L’Istituto Superiore di Arte, Gema Corredera e Afrocuba, tutta una generazione di artisti che cantano in coro. “La casa del Tè”. “La Playita de 16”. “La esquina caliente”. Le permute del Prado. I sabati a Piazza della Cattedrale. Il mercato Centro. Il Mercadito de Línea e quello di 17 e K. Le eterne e terribili liste d’attesa per viaggiare all’interno. El Caimán Barbudo, Naranja Dulce, Los ChicosPaideia. Le conferenze alla Facoltà di Storia. Il Festival del Jazz in cui Gonzalito Rubalcaba e Chucho Valdés fusero tutti i suoni della nostra vita insulare con quello che era entrato dalla finestra, in un nuovo sound che alla fine è diventato: Jazz Cubano.
Arrivarono gli anni 90… un lungo black-out, decennio pieno di profonde carenze, problemi quotidiani e una fame ingiusta. La mia tappa di studi superiori e affetti profondi in tempi convulsi. Anni universitari, duri e oscuri. Foderavamo ancora i libri proibiti. Era difficile raggiungere la scuola lontana e difficile sostenere il corso con un numero inferiore di insegnanti e minori risorse, ma è lì che mi sono formata insieme a grandi colleghi della radio, del cinema e della televisione, pochi di noi si laurearono all’ISA. La vita sociale si esaurì e l’Avana sembrava un accampamento intransitabile per la mancanza di carburante. I divorzi, le separazioni erano parte del quotidiano e resistere parte della mia scuola di solitudine. Il decennio precedente sembrava uscito da un racconto di fantascienza.
Oggi ho la certezza che il periodo speciale, la crisi, i balseros e gli addii mi abbiano preparato, come la miglior accademia, alla vita che mi aspettava nel futuro.
E siamo qui, nell’estate del 2013, a parlarvi è una sopravvissuta, o una donna circondata da fantasmi e da nuovi amici, libri, traduzioni, conferenze, fiere, articoli, editori, diari di viaggio e aspirazioni, senza molto altro che il mio corpo imbavagliato dai vestiti e tutti i miei sensi accesi per cercare di comprendere un paese o un luogo che sembra non essere lo stesso; altri sono i suoi problemi e altri i suoi abitanti, sono passati 30 lunghi anni da quando il mio cuore si insediò nella mappa sentimentale degli anni Ottanta. In quei parchi con la chitarra, in quei teatri nella penombra, nei giardini di El Carmelo, nelle cuccette dei collegi, agli ingressi del Balletto, negli angoli di una galleria illuminata, lì dove una ragazza al neon lampeggia fino a perdere la sua luminosa gonna scarlatta, lì, nello spazio che va dai miei ricordi ai miei incontri, dai miei amori alle mie sensazioni, lì c’è la mia anima, umida e ritoccata, negli anni 80.
Adesso:
Dove si diceva Salsa, si dice Reggaeton, dove si diceva Mangianastri, si dice iPod. Dove si diceva Si permuta, si dice Si vende. Dove si diceva Per sempre, si dice Fino a dicembre. Dove si diceva Poesia, si dice Non ti capisco. Dove si diceva Telegramma, si dice Posta elettronica, dove si diceva Indirizzo di casa, si dice Cellulare. Dove si diceva Ristorante, si dice Paladar. Dove si diceva Ti amo, si dice Ti scarico. Dove si diceva Futuro, si dice Ormai. Dove si diceva Noi, si dice Io.
Dove c’era la Casa del giovane creatore, c’è il Museo del Rum.
Dove c’era il Cinema Campoamor, c’è un parcheggio di biciclette.
Dove c’era l’oleificio El Cocinero, c’è un paladar con lo stesso nome.
Che ne è stato di te e di me? Quanto silenzio! Sono ancora qui, nella stessa città e con la stessa gente. Tornate per favore, conto fino a dieci, quando apro gli occhi vi rivoglio indietro, smettetela di giocare a nascondino.
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7…
Wendy Guerra
(Habáname, 10 luglio 2013)
Traduzione di Silvia Bertoli