Gordiano Lupi (a cura di)
Il Meridiano di Maribruna Toni
EIF, pagg. 280, € 15,00
A quindici anni dalla scomparsa di Maribruna Toni (Piombino, 1951 - 1998), EIF ristampa il Meridiano che storicizza il suo corpus poetico pubblicato nel decennale. Si tratta di un corposo volume che include le quattro sillogi edite: Le vele, i voli, i veli (Libroitaliano, 1997), unica antologia pubblicata in vita, L’urlo si fa silenzio (Traccedizioni, 1999), Un sogno smarrito (Il Foglio Letterario, 2001) e Rimpianto d’onde, di sale e di tempeste (Il Foglio Letterario, 2003). In appendice è inserita una preziosa e inedita raccolta di Poesie ritrovate, apparse dopo la sua morte sulle colonne delle riviste Il Foglio Letterario, Carmina e relativi supplementi antologici. A emblematica chiusura il volume propone “L’occhio incantato”, lirica che racchiude il pensiero filosofico-religioso di Maribruna Toni.
Maria Bruna Toni: “I sogni, ombre
suicide del presente, si sciolgono
in pianto”
Recensione di Patrizia Garofalo
«Ho innalzato/ su piedistalli di cartapesta/ idoli di creta/ poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia/ e gli idoli/ soltanto una fanghiglia// Resta intatta solo la memoria/ incisa a fuoco dentro la mia carne/ così il passato diverrà presente».
La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili, nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre – «suicidi disperati per paura/ che li uccidessi con l’indifferenza»; ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto da affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa a un'onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.
Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica, sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.
Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere «il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate/ i giochi, le canzoni, le risate/ i flauti, gli organi i violini», la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella «veglia della morte mia” dove non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi» e attraverserà la vita, consapevole che l’uomo ha già da sempre sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore così come invece la suggerì Montale. Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura con la quale “gioca” a vivere creando puzzle di cui lei è tessera integrante: «ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare:/ cercavo la luna/ se ne stava nascosta/ pudibonda/ tra le rughe della notte», notte che Mariarosa vive nelle sfumature e nell'eco delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che tralucono ombre, mistero, ignoto nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna specchia sul mare, «meduse/ flaccide e dolenti/ racchiuse nel pallore tremolante/ di una morte recente».
Consapevole che basterebbe «la svirgolata d’ala/ d’un sorriso» a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà «vestale d’amore» per sempre. Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: «se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa». La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive; di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.
Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.
Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’urlo silenzioso «il grido muore/ e mi gorgoglia in gola» e la mano che non si distende sulla tela, «ha solo dita adunche/ chiuse a pugno/ rattrappite/ in un’imprecazione» e solennemente dichiara la morte come unica nostra proprietà ineludibile.
Ma la vestale non spegne il fuoco, non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate «tra tenaglie d’onde/ ripiegate/ in lamine di fogli/ di latta/ in una lotta/ liquida spirale/ di cavalli/ e creste» e dona ceneri di vita. «e mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo/ prendi il mio cuore/ e inchiodalo ad un palo» per una crocifissione di rinascita.
ALCUNE POESIE TRATTE DALLA RACCOLTA:
1.
Al tramonto manciate di conchiglie
rubavano i respiri delle maree,
per farne dono a orecchie di bambini,
insinuando l’ignoto e il mistero,
rimescolando incanti e sortilegi.
E le alghe,
la brezza cospargeva,
di sabbia ancora tiepida di sole.
E le meduse,
flaccide e dolenti,
racchiuse nel pallore tremolante
di una morte recente,
senza voglia,
senza coscienza
e senza compiacenza,
specchiavano la luna.
2.
I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna
dove un gabbiano
che non trova il mare
s’appiglia, s’impiglia
ad un pino,
strozzato
da una forcella
di due rami
in croce.
3.
Sono un vascello che va senza rotta
che ha perso le onde e anche il vento
e che ha perso pure
la prua e la poppa
il canto di sirene,
che ha perso perfino
il dondolio delle carene.
Sono un vascello con le stive vuote
senza neanche reti
per pescare,
senza neanche vele
da innalzare,
senz’albero maestro,
senza un remo.
Ora è bonaccia e mi rimane solo
una triste deriva.
Illustrazioni: Opere di Mariabruna Toni
e la spiaggia di Piombino