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Gino Songini. Gli esami non finiscono mai 
(Giugno: tempo di esami. Uno studente di un passato lontano ricorda…)
29 Giugno 2013
 

In illo tempore (1963) l’esame di Maturità prevedeva che si portasse l’intero programma dell’ultimo anno di scuola. Non c’erano tesi né tesine alle quali aggrapparsi magari per mascherare i vuoti di preparazione, ma soltanto prove scritte e orali relative a tutte le materie di studio previste dai programmi ministeriali. Ricordo che noi studenti di allora ci consolavamo pensando che le generazioni precedenti alla nostra affrontavano la Maturità portando l’intero programma degli ultimi tre anni (di tutte le materie, beninteso). Insomma erano altri tempi.

Quell’anno poi la commissione d’esame fu particolarmente severa. I bocciati furono numerosi così come i rimandati, alcuni dei quali furono a loro volta impallinati a settembre e costretti a ripetere l’anno. I commissari d’esame, arrivati come d’uso da ogni parte d’Italia, facevano a gara a chi era più rigoroso e intransigente. Il presidente della commissione era un professore universitario che incuteva timore reverenziale non solo agli studenti ma anche ai professori membri della commissione (l’anno dopo, 1964, presidente della commissione d’esame della nostra scuola fu il celebre professor Alessandro Cutolo, famoso personaggio della televisione degli anni Sessanta, e le cose non andarono molto meglio). Il commissario interno, ossia il rappresentante della scuola che assisteva agli esami e che avrebbe dovuto essere una specie di nostro avvocato difensore, era il professore di filosofia della sezione A (io ero della B), che godeva di una meritata fama di freddezza e di pignoleria, e non ci fu di grande aiuto.

Io arrivavo agli esami consapevole dei punti di forza e dei punti deboli della mia preparazione. Contrariamente ai miei compagni, nelle settimane precedenti gli esami (che cominciavano il primo luglio con la prova scritta di italiano e terminavano dopo il venti del mese con le ultime prove orali) non mi ero ritirato a studiare in qualche baita di montagna, né in campagna, né in riva al lago. Ero rimasto nella casa dove avevo a disposizione tutto ciò che mi serviva per prepararmi alla prova. In quelle settimane di giugno precedenti l’esame provvidi a revisionare attentamente la mia situazione di studente “distonico”, poco incline al metodo e alla continuità. Si trattava di tirare le fila di anni di studi durante i quali avevo avuto diverse soddisfazioni, ma mi ero anche convinto della mia inadeguatezza e della mia impreparazione in materie importanti come la chimica e la matematica. Per la chimica il mio disinteresse era assoluto e avevo tirato avanti da un anno all’altro grazie alla comprensione che mi dimostrava la professoressa Stella che, nelle interrogazioni, quando vedeva che da me non poteva venire alcuna risposta, si rispondeva da sola e naturalmente si attribuiva quanto meno la sufficienza. In quanto alla matematica, oltre alla naturale idiosincrasia per la materia, ero convinto, come lo sono tuttora, di non avere avuto mai, né alle medie né alle superiori, insegnanti che sapessero rendermi un poco digeribile quell’indigeribile materia. Anche qui tiravo avanti a fatica, studiando poco, mal sopportando i professori che a mio avviso non facevano niente, assolutamente niente, per venire incontro alle mie difficoltà. Dopo il primo anno delle superiori, nel quale ero stato rimandato a settembre proprio in matematica, mi ero ripromesso di non trovarmi più esami di riparazione tra i piedi, e così avvenne. Ma la sufficienza in questa materia era sempre risicata e ottenuta sul filo di lana, con un terzo trimestre di fatiche, di interrogazioni evitate con assenze strategiche (leggi passeggiate romantiche alla “Castellina”), di compiti in classe spesso copiati da un mio geniale e generoso compagno di classe della Valcamonica. Per le altre materie non c’erano particolari problemi. I miei punti di forza erano il latino, l’italiano, la storia e la storia dell’arte. Quando si trattava di tradurre dal latino procedevo con sicurezza e rapidità e a volte, durante i compiti in classe, passavo sottobanco la traduzione all’amico camuno, ricambiando l’aiuto che lui mi offriva in matematica. Avevo sempre studiato volentieri storia e storia dell’arte, e grazie all’interesse per queste materie e ai buoni insegnanti (su tutti la professoressa Tudori e il professor Vaninetti) avevo conseguito una preparazione decisamente buona. Lo stesso potrei dire della filosofia, nella quale avevo però una marcata preferenza per lo studio dell’etica, dell’estetica e dell’epistemologia rispetto alla logica e alla metafisica. L’italiano poi era da sempre il mio cavallo di battaglia. Avevo una viva passione per lo studio della letteratura e il professor Tavolaro, uno dei migliori insegnanti che io abbia avuto, oltre ad apprezzare i miei scritti, mostrava di gradire non poco i miei interessi letterari.

Mi avviavo dunque all’esame con una certa serenità, senza le paure delle quali parlavano continuamente molti miei compagni. L’“esame di coscienza” di quelle settimane di giugno aveva prodotto in me la convinzione di poter fare bene, accompagnata però da un senso di fatalismo dovuto all’impreparazione nelle due materia ricordate. Si cominciò il primo luglio con il tema di italiano. Non ricordo i tre titoli che ci vennero proposti ma si trattava di tracce non troppo interessanti: in ogni caso si poteva scegliere tra un tema storico, una poesia da commentare e un tema di varia umanità abbastanza lontano dalla vita reale e dalla concreta esperienza di un giovane del tempo. In un primo momento pensai di scegliere il tema storico ma poi, siccome l’argomento non mi convinceva pienamente, virai sul commento alla poesia. Il mio tema d’esame, me ne accorsi subito, non fu granché. Forse avevo scelto di commentare quella poesia (di Diego Valeri) per pigrizia e non perché mi piacesse particolarmente e tutto questo si sentiva nello scritto che avevo prodotto. Ebbi comunque un voto buono, anche se non all’altezza delle aspettative. Il giorno dopo, con la prova di latino, ebbi modo di riscattare la parziale delusione del giorno precedente. Si trattava di tradurre un difficile brano di Seneca a causa del quale i signori della commissione assegnarono un elevato numero di insufficienze tra i miei malcapitati compagni. Ricordo ancora le lacrime di alcune ragazze che al termine della prova apparivano distrutte per la fatica e la delusione. La mia traduzione fu tra le poche a ottenere la piena sufficienza. E anche per l’orale mi sentivo pronto a dovere.

E poi… E poi venne per me il giorno del giudizio, ovvero quello della temutissima prova scritta di matematica. Ci venne assegnato un problema particolarmente complesso (del resto c’era da aspettarselo) che riferiva di un trapezio rettangolo che ruotando su se stesso (ma chi mai l’avrà fatto ruotare? …forse il vento) determinava un tronco di cono del quale, partendo da un insignificante dato, bisognava trovare non so più quali e quante cose, forse anche l’eclissi di sole e l’epatta della luna. Rimasi lì per un momento, basito, con la penna in mano, guardando in lontananza il Castello di Masegra che si ergeva severo sopra i tetti di Sondrio. Mai e poi mai sarei riuscito a risolvere quel problema.

Nel lungo corridoio dove eravamo sistemati c’era un grande silenzio. I commissari andavano avanti e indietro con il volto arcigno e il passo da carcerieri. Mancavano soltanto i dobermann e i cani lupo. Ma poi… Chi ha detto che la provvidenza non esiste? Come sopra Maria vergine e gli apostoli raccolti nel Cenacolo, lo Spirito santo discese quel giorno sopra di me. Cominciai a scarabocchiare stancamente qualche operazione e man mano che andavo avanti mi sembrava che quello che stavo facendo legasse se non altro con quello che già avevo fatto, e così procedevo. A un certo punto non sollevai nemmeno più la testa dal foglio: se si trattava di sprofondare con quel maledetto problema, volevo sprofondare fino in fondo, d’altronde quel giorno non potevo chiedere né ottenere l’aiuto di nessuno, perché in quel caso i commissari-carcerieri, dopo aver sequestrato i fogli, mi avrebbero allontanato dalla scuola e non ci sarebbe stata alcuna altra possibilità se non quella di ripetere l’anno e rimandare a tempi migliori il diploma di Maturità. Com’è come non è arrivai fino in fondo, ma avevo ottenuto un risultato “impossibile”: un radicale lunghissimo, zeppo di lettere, di numeri e di potenze, simile a quegli ammassi di segni che si formano sui tablet o sui telefonini quando vanno in tilt. No, non poteva essere quello il risultato giusto. Impossibile. Assolutamente impossibile. Che fare? Mettere di nuovo mano al problema? Impossibile anche quello. Alzai la testa per guardarmi in giro. Tutti stavano ancora lavorando. Soltanto l’amico camuno aveva già terminato. Ma per lui, si sapeva, non c’era problema di matematica che potesse metterlo in difficoltà. Appena allontanatosi il commissario davanti a me mi girai per telegrafargli con l’alfabeto muto il radicale “impossibile”. Lavorando pazientemente con le mani sulla bocca, sulle guance e sul naso, gli trasmisi il risultato del mio lavoro. I segnali durarono a lungo tanto che, prima di finire, dovemmo attendere un altro passaggio del commissario-carceriere. L’amico mi rispose con un’espressione raggiante: il risultato era giusto. Per un momento rimasi sbalordito, quasi senza respirare, con la testa piegata sul banco. Poi mi riscossi e ripensai a tutti gli anni in cui avevo dovuto studiare quella dannata materia senza ricavarne alcun frutto, e infine sentii salire dentro di me una gioia indescrivibile. E siccome è indescrivibile non ve la posso descrivere, ve la lascio immaginare. Per la prima volta nella mia carriera di studente avevo risolto con le mie sole forze un problema di matematica così complesso, tanto che mi pareva quasi di essere un altro. Trascrissi rapidamente su alcuni foglietti la soluzione e, a rischio di essere fucilato, li passai di nascosto alle compagne e ai compagni più vicini, anche per sdebitarmi dei tanti aiuti ricevuti.

Superata quella prova, che oltretutto mi garantiva dalle probabili difficoltà dell’orale, l’esame di Maturità si presentava in discesa. Rimaneva però ancora un grosso ostacolo: la chimica. In attesa che toccasse a me avevo assistito ad alcune interrogazioni e avevo notato che il professore, un signore anziano, calvo, tondo e all’apparenza pacioso ma in realtà inflessibile come nessun altro, dopo un certo giro di domande tornava spesso sulla chimica organica, della quale io non sapevo pressoché nulla. Così, in attesa dell’interrogazione, passai tre giorni e tre notti a studiare decine e decine di pagine di quell’orribile materia. Fu la mossa vincente perché il vecchio grasso e calvo mi interrogò proprio sulla chimica organica e, al termine dell’interrogazione da lui condotta con finta indifferenza, mi sorrise con una specie di ghigno, quasi dispiaciuto di non avermi potuto fregare. In ogni caso mi diede un buon voto: sette. E pensare che aveva rimandato a settembre delle compagne secchione che conoscevano la chimica cento volte meglio di me. Dunque cosa volevo di più?

Avrei altro da raccontare del mio esame di Maturità ma lo spazio non me lo consente e mi fermo qui. Aggiungo soltanto che a me non capita mai, come capitava sempre al filosofo milanese Remo Cantoni e come capita spesso ad alcuni miei ex compagni di scuola, di svegliarmi di soprassalto la notte per aver sognato di dover dare un’altra volta la Maturità. Si vede che nonostante la chimica e la matematica quello stress è stato ampiamente superato. Sogno invece spesso i compagni, le compagne e i professori di quegli anni felici. L’Italia era in pieno boom economico, Moro e Nenni davano il via ai primi governi di centrosinistra, veniva nazionalizzata l’energia elettrica e il nostro paese, dopo le ferite della guerra, acquistava un ruolo sempre più importante sulla scena mondiale. Però in quel fatidico 1963 moriva papa Giovanni e Kennedy veniva ucciso a Dallas in un attentato che non è mai stato chiarito. Sempre in quell’anno l’immane tragedia del Vaiont aveva provocato dolore e sgomento in tutto il paese. Luci e ombre, come sempre, nella vita degli individui e del mondo. Poi il tempo è passato, cinquant’anni sono trascorsi come vento leggero. E la vita, giorno dopo giorno, ci ha chiamati e ci chiama a impegni e prove le più diverse, prove che occorre affrontare senza nemmeno la possibilità di riparare a settembre: hic Rodus, hic salta. È proprio vero che gli esami non finiscono mai.

 

Gino Songini



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