– Alessio, Leopardi è poeta anche e soprattutto dell’indefinito come lui stesso scrive nello Zibaldone e, a mio avviso, proprio questa precisazione lo rende molto vicino ai nostri giorni… che ne pensi?
Sì, Leopardi è un poeta di un’attualità disarmante, vuoi perché per primo in Italia e forse in Europa ha avvertito l’avvento del Nichilismo, vuoi perché rappresenta un modello di erudizione totale che per noi, oggi, non è più possibile. Certo la sua lezione sull’Indefinito è valida ancora oggi, nell’età dell’incompiutezza e dell’incertezza. Ci ricorda che Leopardi non era solo un poeta, ma un grande maestro di poesia.
– L’amore è qualcos’altro… un’aspettativa ampia dell’accezione del termine amore o qualcos’altro di non rivelato e di inaccessibile segretezza?
Nell’amore c’è sempre qualcosa di segreto, di incomprensibile, fa parte del mistero della vita. Noi nelle nostre poesie tocchiamo varie forme di amore, nelle sfumature e declinazioni che abbiamo provato personalmente. Ma spiegare l’amore, no, quello è un lavoro da alchimisti. Noi ci accontentiamo di dire che l’amore è molto più di quello che comunemente si pensa, ed è molto più complesso, nel bene e nel male, di come probabilmente vorremmo.
– Ranieri e Leopardi… tu e Matteo… più che una silloge a due voci a me sembra che il vostro testo percorra la strada dell’epistolario.
Questo mi fa piacere, perché nell’epistolario c’è un grado di intimità superiore, almeno per come lo intendo io. Io a Matteo devo molto, e fare questo lavoro insieme, in cui confessiamo a noi e al lettore molto delle nostre vite, è stato davvero magnifico. Perché non è solo una raccolta di poesie, questa è una vera prova di amicizia.
– Erica e Silvia, entrambe a significare «l’abisso senza nome» della fine dei sogni? La fine di un percorso senza meta… una poesia della realtà come ho scritto io nella vostra recensione?
Erica, come Silvia, è un’amica che ci ha preceduti sul cammino della realtà, verso l’abisso, che non ha un nome perché noi non sappiamo nemmeno che forma avrà, di che sostanza sarà fatto, questo abisso. Certo, mi rendo conto che questa è una poetica dura, struggente, che a taluni può risultare fastidiosa, ma per me la poesia deve essere anche una riflessione sui destini del nostro vivere, perché così può aiutarci giorno per giorno ad essere meno angosciati. In fondo la tragedia greca serviva anche a questo.
– «Dopo aver riflettuto intorno alla diversità / tra lo spavento e la paura», ne parliamo di questi due versi?
Questi versi chiudono la poesia Wonderful life e parlano di donna, Susie, che viene abbandonata dal suo uomo perché lui non sa più amare, si è smarrito da qualche parte nel mondo e ora è semplicemente un uomo che non ha più niente da dare. Lei lo ama, però sa che non potrà mai più averlo ed è spaventata, mortalmente spaventata. Ma l’esperienza di donna le dice anche che dopo lo spavento verrà la paura, il terrore della solitudine, e mentre pensa a tutto ciò ritorna come una bambina, rimasta orfana del suo amore. In questo senso, lo spavento è solo la fiamma, mentre la paura è il fuoco che divampa e brucia tutto.
– «Forse un giorno questo reliquiario / […] qui il buio non si squarcia mai / qui non rilucono le insegne degli alberghi / qui l’opulenza si affaccia appena…»; questi versi hanno un’impronta, a mio avviso, fortemente montaliana…
A mio modesto avviso, scrivere dopo Montale senza essere un po’ montaliani è impossibile. Per parte mia, non ho problemi a dire che adoro Montale, soprattutto il primo. È il poeta che più di tutti ci ha detto dell’uomo del Novecento, del suo ‘terrore d’ubriaco’ e della sua ineludibile impotenza.
– Quanto ha inciso nei tuoi versi Ferrara e il Grande Fiume?
Beh, Ferrara per me è stata fondamentale: non è stata solo una città in cui ho studiato, ma il luogo in cui per la prima volta ho potuto scambiare e confrontare le mie passioni letterarie con altri. Ferrara ha una fertilità culturale fatta di giovani e persone comuni, e non solo da addetti ai lavori, che è difficile trovare altrove. Con de Pisis dico che è proprio ‘la città dalle cento meraviglie’. Il Po invece mi ricorda le mie origini. Corbola, dove risiedo, è un piccolo paese di 2.500 abitanti incastonato nel Delta, figlio della terra trasportata nei secoli dal fiume. Una volta i miei compaesani erano tutti barcari, lavoravano e vivevano sull’acqua, per loro il Po era tutto. Per questo quando torno da Verona, dove studio ora, e vedo il Grande Fiume, so di essere arrivato a casa.
Complimenti per la vostra silloge in cui la prefazione e le note di poeti come Roberto Pazzi e Giancarlo Pontiggia invitano noi lettori ad una lettura attenta e profonda.
Patrizia Garofalo