Dopo la morte di mons. Franco Patruno, sacerdote ferrarese di grande umanità e di vasti interessi culturali, alcuni amici stanno raccogliendo e pubblicando i suoi numerosi scritti, apparsi su riviste e quotidiani, tra cui soprattutto L’Osservatore Romano, giornale nel quale era frequentemente presente con scritti d’arte, di cinema e di cultura in generale.
Ora, in bella veste tipografica, esce, con ampia introduzione di Andrea Nascimbeni ed una postfazione di Carlo Bassi, un saggio di don Franco, condensato in poche pagine dense di pensiero e di forti richiami culturali, dal titolo Per una teologia dall’opera d’arte (Carta Bianca Editore, Faenza). Si tratta di un’articolata riflessione di filosofia estetica attraverso la quale l’autore tenta di perlustrare l’ampio territorio dell’arte, per trovare elementi che possano condurre ad una visione superiore espressa attraverso le forme, i segni, la struttura stessa dell’opera. Parrebbe, ad una prima intuizione, che tale lettura potrebbe applicarsi solo a dipinti di carattere religioso e comunque sacro, ma l’autore, partendo inizialmente da questa generale convinzione, dimostra poi che essa è in qualche modo restrittivo, e vincola la visione – ed il conseguente sviluppo del pensiero – ad una realtà strettamente figurativa, e ad un’iconografia dove si può leggere soltanto ciò che il pittore ha voluto rappresentarvi.
Invece don Patruno tenta di dimostrare che ci sono analogie tra il divino e l’umano, presenti e leggibili certamente in opere di carattere sacro, ma – pur espresse sotto-traccia e, spesso, all’insaputa dello stesso artista – anche in lavori del tutto estranei a richiami di natura religiosa o comunque teologica. Così, seguendo l’ardua tassonomia di don Franco, pensiero dopo pensiero, ragionamento dopo ragionamento, si arriva a concludere che in realtà l’arte, se veramente tale, assume una valenza talmente coinvolgente per chi opera che, di riflesso, anche lo spettatore ne viene investito. L’esempio proposto per il primo caso è già di per sé problematico e dirompente. Si presenta, nel testo, l’immagine della Crocifissione di Guido Reni, conservata nella Galleria Estense di Modena, e lo Studio per una Crocifissione di Graham Sutherland, esposta nei Musei Vaticani. Due opere di una diversità impressionante, che rappresentano, in forme diversissime, lo stesso soggetto. L’immagine è sacra, e propone alla visione una scena ben risaputa; ma quali realtà sono adombrate nei due dipinti? Nel Reni pare evidente un senso orante di umile invocazione, nella trascendente bellezza del corpo levigato da un diafano chiarore che sembra disciogliersi nella luce. In Sutherland, invece, una figura sformata tra colori trasgressivi trasmette il dolore anche fisico, e l’apparente sconfitta dell’uomo Cristo, che verrà riscattata soltanto dalla Resurrezione del Cristo Dio. È dunque bella la prima, o la seconda, o entrambe? E perché?
La scelta, se così si può dire, sta non solo nel significato, ma negli equilibri delle due opere, quelle che don Franco, citando il Dedalus di Joyce e richiamandosi alla filosofia della Gestalt (cioè del comportamento), interpreta come un ritmo figurato o musicale, «cioè proportio di ciascuna parte con l’altra entro i limiti dell’insieme, ma devono poi essere seguite ‘da un punto all’altro’ nella loro genesi e nell’eventuale consonanza di tutte le parti…». Che significa appunto creare un’armonia, che faccia apprezzare l’opera dal momento che si intuisce una fusione tra figura, pensiero, significato e significante. Già fra Luca Pacioli aveva intuito quest’armonia, quando, nel 1509, pubblicava l’opera De divina proportione, in cui sosteneva che la prima forma di armonia dell’universo è la geometria e, come conseguenza necessaria, la matematica, dalle quali, indagandone la perfezione assoluta, si risalirebbe a Dio. E non è forse proporzione geometrica dentro un simbolismo di freddi equilibri che Piero della Francesca delinea la sua famosissima e misteriosa Flagellazione di Cristo? E ancora, non è forse rispondente a questa visione di razionale connessione tra le parti il San Sebastiano del Mantegna e, agli antipodi, i reticoli di Mondrian, di cui l’autore riprende, come citazione, alcuni dipinti?
Il discorso, come si vede, si fa profondo e occorre una paziente attenzione per legare tra loro concetti, idee, citazioni, per costruire un logico percorso che prescinda dalla sola ragione o dalla sola fede (o dalla sola estetica, o dal solo percorso storico-artistico), ma aggredisca, in un complesso lavorio ermeneutico, il problema nella sua complessità interdisciplinare e lo sostenga con le già composite indagini di altri studiosi del passato citati nel saggio di cui stiamo parlando: dai filosofi greci, in primis Aristotele e Platone, a San Tommaso, ad Antonio Rosmini, a Romano Guardini, fino a Kirkegaard, e, tra gli altri, ad André Chastel, di cui don Franco, concludendo il suo densissimo saggio, cita la seguente frase: «…la fortuna della dottrina (e cioè l’ars platonica) sollecitava fatalmente ad applicare a quelle prime e poi allo stesso modo la teoria del ‘soffio divino’. Così per l’Alberti e per Ficino, il creatore è una sorta di alter deus; e questa nozione prepara a scoprire il ruolo dell’ispirazione presso i maestri».
La quale ispirazione fu indagata fin da Platone e ripresa poi dal Pascoli nel celebre saggio Il Fanciullino, ma approfondita più dettagliatamente da Maritain quando, trattando nel volume L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, definisce appunto l’ispirazione come ‘intuizione creativa’, entrando così nello specifico della creatività, oggi ampiamente studiata dalla psicologia. E in questa visione di elaborazione psicologica, è forse possibile risalire, davanti ad un’opera d’arte, all’idea del sublime, del terribile, dello stupefacente, dell’infinito o del profondo, abissale turbamento? In taluni casi sì, in altri no: e, come nella poesia, l’eleganza fredda di certe composizioni, specie attuali, non effonde, nel lettore, quelle riflessioni interiori che per esempio vengono invece intuite e ripensate in certi versi della Merini, così tragicamente intrisi di materialità, di umanità, ma anche di una sete quasi delirante di purificazione, di bellezza, di amore. Quelle sono legate, anche se perfettamente, alla ragione; queste ad una partecipazione più totale, più coinvolgente e interiore dell’uomo.
«Come si potrà constatare» nota don Franco a conclusione «la terminologia è già assai vicina al ‘timore e tremore’ che si provano di fronte alle ierofanie».
E l’opera d’arte, in questo senso, può proporre pure una sua teologia: basta saperla individuare, leggere, capire. E poi accettare.
Gian Luigi Zucchini