| Disegno di Tom Lacey |
14 Giugno 2013
Il sindacato di polizia denuncia Ilaria Cucchi (» Il Fatto Quotidiano), colpevole di reclamare giustizia per il fratello assassinato. Ora che cosa accadrà? Innanzitutto, le spese legali per le forze dell'ordine saranno a carico dello Stato, mentre la sfortunata sorella della vittima dovrà sostenere costi ingenti, probabilmente per numerose udienze nel corso di anni. Inoltre, Ilaria rischia una pena detentiva per il reato di “diffamazione” a mezzo stampa, con relative aggravanti trattandosi di autorità. Nel frattempo, è stato mandato un segnale forte e chiaro per chi osa lamentarsi a causa del sangue innocente versato quando ci sono di mezzo le divise: “Attenzione, perché la musica sta cambiando e l'arma legale/giudiziaria l'abbiamo noi dalla parte del manico”.
Noi attivisti del Gruppo EveryOne abbiamo già fronteggiato questo atteggiamento, uscendone indenni solo grazie agli interventi dell'ONU, del Parlamento europeo, di FrontLine Defenders, degli Avvocati senza Frontiere e di oltre cento organizzazioni internazionali per i diritti umani. Oltre che dei nostri legali. L'attacco istituzionale ci è costato migliaia e migliaia di euro, che nessuno ci ha rimborsato. E uno stress che non si può descrivere a parole. Ma non è ancora finita e ogni volta che ci troviamo di fronte ad agenti, ci accorgiamo di come essi non siano disposti ad ascoltare la nostra mediazione, ma usano toni imperiosi, prospettano denunce o l'arresto, non mutano atteggiamento quando si pongono con durezza di fronte a persone emarginate e vulnerabili. Riguardo ai nostri attivisti di etnia rom o stranieri, è ancora peggio, perché gli uomini in divisa a volte non si accontentano delle parole, come abbiamo scritto e documentato più volte.
Chi scrive avrebbe potuto fare la fine del povero Federico Aldrovandi, nel 1976. Fermato da uomini in divisa a Rimini, mentre mi trovavo in compagnia di stranieri “giramondo”, venni portato in questura – in guardina – insieme a un altro ragazzo, dove entrambi fummo spintonati, schiaffeggiati, insultati in modo volgare e costretti a denudarci completamente. Il nostro aguzzino ci fece poi appoggiare la mani al muro e piegarci, toccandoci nelle parti intime con un manganello. Quando minacciò di andare oltre, ridacchiando come i cattivi dei film (mentre altri agenti entravano e uscivano), gli dissi che alla fine, però, doveva ucciderci, perché una volta fuori saremmo andati alla sede del quotidiano Il Resto del Carlino, dove avremmo chiesto di parlare con la redazione e riferito tutto quello che ci stava accadendo. Così ebbero fine gli abusi nei nostri confronti. Uscendo, un superiore ci disse che noi non saremmo stati denunciati (e per che cosa?) né schedati (e perché?), purché dimenticassimo l'episodio. Il mio compagno di sventura, una volta fuori, disse che non voleva denunciare l'episodio, perché aveva paura. Così restai solo e senza altro riscontro che i miei freschi ricordi. L'episodio finì dunque nell'oblio. Ne rivivo la crudeltà, l'arroganza, la disumanità quando mi imbatto in persone – sempre straniere, povere o molto giovani – che mi riferiscono di aver subito episodi dello stesso tipo, episodi che non lasciamo mai perdere e che cerchiamo di denunciare sempre, prodigandoci contemporaneamente per salvaguardare le vittime dalla vasta gamma di possibili ritorsioni.
La violenza da parte di chi dovrebbe “servire e proteggere” è vile e nasce da un connubio di ignoranza, baldanza e odio verso il prossimo. È un mostro che infesta le società di tutte le nazioni, democratiche e non. Si avvale di una rete di protezioni che spesso raggiunge i vertici del potere. Tuttavia, anche se alla maniera di un Davide senza fionda contro un Golia enorme e senza scrupoli, bisogna fronteggiarla sempre.
Roberto Malini |