C’è un momento nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito. Capita a tutti, prima o poi. Alle donne… agli uomini… È una sensazione più ancora che un progetto, quasi un messaggio che ci raggiunge all’improvviso, sottile e poetico… quasi un’urgenza o un’emergenza, un dovere o un diritto: a seconda dei casi e delle circostanze.
(Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore)
Sì è tenuta ieri alla Biblioteca Ariostea di Ferrara, con la partecipazione di Angelo Andreotti e di Patrizia Garofalo, la presentazione di Cento giorni sul comò di Pino Tossici, autobiografia cui Tellusfolio già si è interessato con una recensione di Nicoletta Polla-Mattiot e in una conversazione con l'autore, proposta in occasione della presentazione romana del volume. Prendiamo parte e lasciamo traccia dell'incontro di ieri con questo breve testo dell'autore. (Red.)
IL TEMPO DELL’AUTOBIOGRAFIA
Mai come oggi l’autobiografia, intesa come scrittura seria e introspettiva della propria storia, come strumento per conoscersi e ri-conoscersi, è stata tanto praticata.
Perché si avverte così intenso il bisogno di raccontarsi? Tante solo le risposte, la più diffusa è quella di lasciare una traccia di noi, una testimonianza del nostro percorso, di ciò che abbiamo vissuto e creduto di capire, per dare uno scacco all’oblio e salvare i nostri ricordi.
Un’altra risposta è perché la scrittura ci consente di affrontare meglio dei momenti difficili, di disagio, di crisi esistenziale: ci sentiamo soli e avvertiamo il bisogno di farci visita, di tenerci compagnia, di ritrovare le nostre tracce esistenziali per riempirle di significati vecchi e nuovi. Un’altra ancora è quella di conoscerci più a fondo, di scoprire altre cose di noi, e per fare scoperte nulla è meglio della scrittura, che serve non solo a raccontare ciò che si sa ma più spesso a contattare l’ignoto.
Quella autobiografica, poi, è una “scrittura-ponte” che ci permette di imparare dal nostro passato per interpretare meglio il presente e aprire una finestra sul futuro.
Ma un bisogno collettivo così pronunciato ha certamente motivazioni che trascendono il singolo individuo e affondano più in generale nell’epoca che stiamo vivendo.
È questo un tempo di disorientamento, di solitudine, di disincanto. I valori, le certezze, le sicurezze che ci hanno accompagnato fin qui appaiono smarrite. La parola d’ordine sembra essere precarietà: nel lavoro, nelle relazioni affettive, famigliari, di amicizia. Avvertiamo una sorta di perdita di identità, di punti di riferimento, oltre che uno schiacciamento sul presente. Cerchiamo così una nuova bussola e, per ri-trovarla, ci affidiamo alla cosa più preziosa che possediamo, la nostra storia.
Anche gli oggetti, le cose che ci circondano, ci appaiono precari, fatti per essere rapidamente consumati e buttati via per cambiarli con altri altrettanto evanescenti, che si dissolvono con la stessa rapidità. Tutto va troppo di fretta e a volte sembra lasciarci indietro, è duro apparire all’altezza. Velocità compulsiva e superficialità hanno relegato a dimensione di antiquariato categorie illustri come pazienza, lentezza, esattezza, permanenza, concentrazione, profondità, ricerca delle radici che sono proprie della scrittura e in particolare della scrittura di sé.
In tutto questo, forte è il bisogno dell’individuo di farsi nuovamente soggetto, di ricomporre i suoi frammenti di esistenza, di trovare un centro, un ubi consistam, un punto di equilibrio e di vicinanza a se stesso e ai suoi sentimenti. Abbiamo bisogno di rassomigliarci di più, di non esserci estranei.
Ecco perché questo è il tempo dell’autobiografia: scrivendo e raccontando di noi ricerchiamo la nostra immagine interiore, quella più vera, riannodiamo i fili dell’esistenza, impariamo a orientarci, a liberare e gestire le emozioni, a riconoscere i nostri sentimenti, la complessità del nostro essere e, soprattutto, a convivere con la nostra storia.
Pino Tossìci