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“Elegia dell'inverno” di Alberto Amorelli e “Bestiario dell'estate” di Matteo Pazzi 
La poesia senza inizio e senza fine, nel double sided book di due giovani voci ferraresi
Foto di Chiara Galloni (nel volume Kolibris)
Foto di Chiara Galloni (nel volume Kolibris) 
11 Giugno 2013
 

Mercoledì sera, alle ore 19:30, per l’apertura straordinaria della Libreria Feltrinelli di Ferrara, Alberto Amorelli e Matteo Pazzi presenteranno la raccolta “double sided”: Elegia dell'inverno/Bestiario dell'estate (Edizioni Kolibris 2013, pp. 72, euro 12), quinta nella classifica cittadina per copie vendute.

 

 

Gli appunti di lettura di Eleonora Rossi

 

Copertina ruvida, bianca come neve e ghiaccio eterno, oppure accecata di luce, nel meriggio d'estate. Il bianco – colore dell'assoluto – annuncia una poesia pura, in grado di toccare le estremità del sentire: due universi che si sfiorano, pur trattandosi di stagioni antitetiche. Elegia e bestiario: poesia che eleva, poesia che sfiora il precipizio. E qui il “gioco” di due opere giustapposte, appoggi sul comodino il libro e non sai da che parte lo riaprirai al risveglio: perché questo libro è un “oggetto magico”, come quelli delle fiabe. Anche il “logo” di Kolibris sembra fotografare due creature che si uniscono, voci diverse che finiscono per sovrapporsi in un nuovo canto.

Poesia più nuda, quella di Matteo, più carnale, nelle metafore che sferrano pugni allo stomaco: «Sabbia nella mano morta di una clessidra,/ questo tram di stelle storpie/ e specchi impiccati a un'immagine,/ è la violenza del tempo/ cadavere imbalsamato che vuole amare/ e che nell'amare sa solo uccidere» (La spiaggia). Più vellutati i versi di Alberto – nelle allitterazioni, nelle anafore, nella figure retoriche che tendono al sublime –; poesia avvolgente, come un «amichevole abbraccio», nella definizione di Matteo (dalla Prefazione). Da un lato l'asprezza dolce dell'estate, dall'altro la dolcezza pungente dell'inverno. Perché la dolcezza è un tratto che avvicina queste due anime poetiche.

È interessante sentire dalla voce degli autori come è nata questa avventura letteraria: Alberto Amorelli scrive di getto – quasi fosse un unico discorso – una rosa di poesie ispirate dall'inverno; parlando casualmente con Matteo Pazzi scopre che anche l'amico ha un progetto latente e ha composto un cospicuo numero di poesie... dedicate all'estate. Da qui l'idea di raccogliere le diverse ispirazioni per far fiorire le inaspettate “affinità elettive”. E dalle due singole raccolte nasce il “terzo libro”, che è incanto dell'intersezione: un'opera comincia dove finisce l'altra, come in certi capolavori di Escher.

La struttura è simmetrica e speculare: vi è in entrambe le raccolte un componimento che apre ed uno che chiude. Sapremo un giorno e Fine mese per Amorelli e Prologo e Conclusione per Pazzi. Alfa e omega. Perché ogni silloge è un cerchio.

La scrittura è un fatto solitario e nelle singole opere si sente l'inconfondibile personalità dei due autori – come ricorda un detto messicano, scrivere è un «Sacar el diablo pa' fuera», liberarsi dai demoni –. E questo arriva con intensità dalla scrittura di Matteo, nei suoi versi ironici, beffardi. Alberto l'ha descritto magistralmente nella prefazione: «Sembra sempre facile scrivere dell'estate, è la stagione dei luoghi comuni […]. È banale l'estate […] Questo, almeno, fino a che non arriva l'estate di Matteo Pazzi, perché quest'estate ‘è una bestia a passeggio sopra un corpo nudo’ (da L'estate) […]. Con una vivace penna bruciante di calor bianco il Bestiario dell'Estate è quello che non volevate sapere dell'estate, è il frantumarsi dei sogni, è la cruda realtà che si fa strada, selvaggia nelle nostre deboli menti pigre». Ma pure nell'inverno di Alberto è forte la tensione, l'ossimoro: «ardo come la neve/ incendiata di luce» (Brucio di gelo). Ci sono queste due strade con una singola fisionomia, ma – come poiché gli opposti si attraggono – le vie finiscono per incontrarsi. Le due prefazioni scritte dagli autori con reciprocità – individualmente, senza leggere quella dell'altro poeta – si concludono con un accordo finale, un aggettivo peculiare: «Imprescindibile», «Innegabile».

In entrambe le sillogi si respira una poesia del desiderio, della sensualità: le figure femminili sono emblematiche. È palpabile in entrambe le raccolte un sentimento del Tempo che si traduce in disincanto: una rievocazione di giochi infantili che affiorano dai ricordi mai sopiti dell'infanzia, ma che si vestono di disillusa consapevolezza. «Stesi a terra giocavamo agli angeli/ muovendo braccia/ come ali nella neve./ Era cercare una speranza/ dare forma a qualcosa/ ci proteggesse/ nella neve fresca./ Cercavamo i sogni bambini/ non sapendo quanta fatica/ il vivere c'avrebbe recato». (Alberto Amorelli, Angeli di neve). «Io sono incinto di vita/ e ubriaco di stelle,/ esisto come esiste una sigaretta,/ un tiro dopo l'altro/ e qualche boccata di fumo,/ mi arrangio/ fabbricando mine antiuomo di cartapesta/ e mitragliatrici di burro,/ per me respirare equivale a sorridere/ perché quando un bambino/ mi prende in mano/ io non posso proprio fare a meno/ di trasformarmi/ in una spada/ o in uno scettro/ o in una bacchetta magica». (Matteo Pazzi, La paletta).

Si tratta di due “viaggi”: è un peregrinare quello di Matteo, un incedere labirintico, un «semieterno inciampare», come si scopre nei suoi versi: «sperduti fra queste/ pareti di sabbia/ in cui partenza e arrivo coincidono,/ sorpassi/ uscite di pista/ traiettorie sbagliate/ scelte/ decisioni/ tattiche» (La pista delle biglie). «Questo groviglio di palazzi/ disabitati e viottoli vomitati/ da un gabbiano impazzito» (Estate della fine). «Dove sto andando», si chiede l'io poetico in Bandiera rossa: «corsia di schiuma da barba/ lasciata da un motoscafo/ sul viso del mare,/ dove sta andando?/ dove sto andando?». Ma anche nella raccolta di Amorelli il cammino del poeta è malsicuro: è il vagare nella lirica Sapremo un giorno: «Abbiamo camminato/ senza meta precisa/ persi in silenzi comodi/ come vecchie scarpe». Sono i “naviganti” di Iceberg: «naviganti senza poter/ decidere la rotta/ con il timone bloccato/ su coordinate sconosciute». Un io alla ricerca, che si trascina: «Mi trascino/ senza trovare/ il perché/ del mio cercare». (Il passo più greve). Con l'anelito ad un “porto sicuro”: «fatto di ghiaccio/ di amore e di noi», come si legge nel congedo Fine mese. E sono tante altre le assonanze: più si legge il libro e più si scoprono alchimie, incantesimi della parola.

I punti di tangenza delle due “stagioni” a volte sono immagini poetiche, come le «statue che si baciano dentro il marmo delle stelle» (Pazzi, L'ombrellone) in parallelo alle «statue di ghiaccio/ pure di emozioni/ eterne di purezza» di Amorelli (Statue di ghiaccio). Oppure la pioggia: «Sono pioggia invece/ malinconia d'autunno», scrive Alberto; gli fa eco Matteo: «dal cielo stanno cadendo treni di pioggia/ la pioggia è il mezzo di trasporto sul quale stiamo viaggiando/ la nostra vera destinazione».

In entrambe le raccolte si avverte il graffio di “lame” insidiose: «Quando parlo con te/ indosso pattini/ su un lago ghiacciato» (Amorelli, Disequilibrio). «Piccolo neo/ immerso in un confine/ di lame taglienti» (Pazzi, L'ombrellone).

Vi è poi l'aggettivo “tremante”, che appare sia in Disequilibrio di Alberto «Preciso, ma sospeso/ in piedi ma tremante», sia ne Il mare di Pazzi, poesia che si apre con una metafora geniale – richiama alla memoria Solo la morte di Pablo Neruda – e fa sentire inesorabile il Vuoto: «Il mare è una grande bara/ tremante dietro alla pagella/di chi lo guarda./ Spada di Damocle o bivio –/ la riva, una scatola vuota/, il largo, un accendino/ che non si accende –/ questo semieterno inciampare/ di qualcosa da riempire/ o di oscurità da scacciare». E l'aggettivo “tremante” rievoca il celebre verso del canto V dell'Inferno dantesco: «La bocca mi baciò tutto tremante». Perché infine nelle due opere è dominante la passione, l'amore.

Una parola che riluce in poesie assolute come Perdimi di Alberto: «Perdimi, nessun rammarico./ Il turbinio della/ neve fredda/ ti ha disperso/ la mia immagine/ inutile perdonare./ Perdimi/ solo l'eco d'amore/ ardente sarà cerino/ nell'inverno eterno». E in Conclusione di Matteo: «In conclusione l'amore/ è un bicchiere/ nel quale puoi versare acqua/ all'infinito/ senza riuscire a riempirlo fino all'orlo [...] in conclusione/ l'unica cosa a non esistere/ è la conclusione». Il senso di Vuoto di Matteo si colma di infinito e «l'eco d'amore/ ardente sarà cerino/ nell'inverno eterno» di Alberto.

Le due raccolte poetiche così si toccano nell'infinito, e l'opera stessa potrebbe essere descritta come il simbolo matematico che lo rappresenta: una sorta di “otto” rovesciato su un lato, una linea continua, della quale non puoi dire con esattezza dove inizia e dove finisce. Perché geometricamente Elegia dell'inverno e Bestiario dell'estate sono due cerchi che si toccano: due opere compiute che si innestano e germogliano nella poesia. Nella parola che non ha fine.

 

 

 

Alberto Amorelli e Matteo Pazzi, il primo classe 1979, laureato in Conservazione dei Beni Culturali a Ravenna, il secondo classe 1977, laureato in Scienze Politiche a Bologna. Tra il 2000 e il 2010 sono usciti con diverse pubblicazioni di poesia e narrativa, tra cui Allegre Malinconie (poesie, Este Edition, 2000) e Chiaroscuro Estense (racconto, Comune di Ferrara, 2012) per Amorelli e Chiuso per Lotta (romanzo, Prospettiva Editrice, 2003) e Compendio del cacciatore disarmato (poesie, Edizioni Simple, 2008) per Pazzi. Hanno scritto e collaborato con varie riviste cartacee e online, tra cui l'Ippogrifo, Il Segnale, Occhiaperti.net e Listone Magazine. Entrambi sono membri dell’Associazione Gruppo del Tasso, del quale Amorelli è presidente.


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