Le non riforme, come sempre ricorda Mario Monti, sono state il vero costo della politica legato al “bipolarismo delle estreme”, che ha accompagnato l’intera Seconda Repubblica. Hanno mangiato la crescita, accresciuto la spesa e il debito, consolidato un mercato politico parassitario e particolaristico. Il governo Monti ha rotto questo equilibrio perverso, onorato gli impegni, come il pareggio di bilancio nel 2013 assunto temerariamente dal governo precedente, e aggredito dossier, come quello previdenziale, che giacevano inevasi da quasi un ventennio. Mentre l’ombra del default si allontanava e i costi del salvataggio si presentavano inevitabilmente nel bilancio delle famiglie e delle imprese, Monti e il suo esecutivo hanno iniziato a pagare il prezzo dell’impopolarità e i partiti che lo sostenevano hanno optato, chi più chi meno, per una ritirata elettoralistica anziché rivendicare una assunzione di responsabilità per il futuro.
Il rischio da cui si deve guardare Letta è che il tempo della pacificazione produca un effetto paradossalmente simile a quello dello scontro: l’accantonamento o il rinvio delle riforme radicali (e quindi politicamente non indolori) di cui l’Italia ha bisogno. La grande coalizione serve al meglio il paese se fa le cose ragionevoli e difficili, che le spalle di una sola parte non sono solide a sufficienza per sopportare. Non se media tra gli interessi propagandistici degli uni e quelli degli altri, in una riedizione riveduta e corretta della vecchia “democrazia consociativa”.
Dobbiamo essere molto grati a Napolitano per avere di fatto imposto a un Parlamento riluttante la sola formula di governo di cui esistevano i numeri e le ragioni. Enrico Letta e la fisionomia del governo dimostrano che il rinnovamento può (deve) avvenire per linee interne alla politica e non coincide con la rottamazione dei partiti e delle istituzioni, né con la resa alla demagogia “post-democratica” del M5S. Mi pare che il Presidente del Consiglio – e anche questo gli va ascritto a merito al pari di un linguaggio asciutto e diretto e a una visione d’insieme dell’Italia del futuro – sia il primo a frenare gli entusiasmi e a mostrare la piena consapevolezza della fragilità della situazione italiana.
Il deterioramento della condizione economica attuale è l’effetto dei ritardi e delle negligenze con cui la politica negli ultimi decenni ha affrontato alcuni dei nodi strutturali della scarsa competitività del Paese. Il nuovo esecutivo, ora che l’Italia ha ritrovato negli scorsi diciotto mesi voce in capitolo, ha il dovere di impedire che in sede Ue la politica del rigore rappresenti un ostacolo e non un incentivo efficiente alle politiche di risanamento. Nessuna persona onesta può però sostenere che il principale (o addirittura il solo) problema economico dell’Italia sia costituito dalla trappola dell’austerità imposta dalla Germania. L’Italia ha smesso di crescere da oltre un decennio e la crisi del debito – certo favorita anche dai “difetti di fabbrica” dell’eurozona – è stato una degli specchi più eloquenti del nostro declino economico.
Ma proprio i temi che oggi più agitano il dibattito politico – l’IMU e il cosiddetto reddito di cittadinanza – dimostrano che la classe politica continua a temere più l’impopolarità che l’impotenza. Si parte da quello che serve (o si creda che serva) per recuperare consensi, non da quello che occorre per una crescita duratura. Ma le cose sbagliate non diventano giuste perché, magari in assenza di puntuale informazione sul rapporto costi benefici, sono popolari. Così si potrà forse chiudere la parentesi virtuosa ma scomoda del governo Monti, ma per fare passi indietro e non avanti.
Letta e i suoi ministri avranno modo di dimostrare che vogliono e possono scongiurare questo rischio. Il compito di Scelta Civica è stato fino ad oggi di lavorare per arrivare a questa compagine di governo. Da ora in poi dovrà essere quello di insistere, senza temere confronti anche robusti all’interno della maggioranza, perché nell’interesse dell’Italia continui una stagione di riforme ambiziose. Su questo punto, su questo ruolo, su questa specifica differenza il partito montiano deve cercare e costruire consenso. È ancora un tempo in cui se non si vuole diventare antipopolari, si deve nell’immediato correre il rischio dell’impopolarità e parlare alla testa ed al cuore del paese.
Benedetto Della Vedova
(da Il Foglio, 7 maggio 2013
pubblicato col titolo “Ahi Letta”)