Un libro poetico che lacera l’anima del lettore, dedicato dall’Autore al fratello deceduto a soli 44 anni e a Pier Paolo Pasolini, persone cosiddette “diverse” per le loro pratiche sessuali come una persona dovesse esser valutata non per ciò che vale ma per il suo stile di vita. Prima di entrare nel vivo del libro – un “diario” di vita del fratello – terrei a far subito una distinzione tra sesso e genere. Il primo racchiude le caratteriste fisiologiche ed anatomiche dell’individuo, il secondo riguarda la specificità culturale, psicologica e sociale, pertanto è suscettibile di giudizi “moralistici” quasi spesso in negativo in quanto pesano preconcetti di ogni tipo e si vede nell’omosessuale (non cercate tale termine in greco antico: non esiste pur essendo la parola composta da etimo dotto, come non compare eterosessuale. Lì ancora si giudicava non le tendenze sessuali ma l’individuo) che fu incluso nella categoria “psichiatrica” dell’invertito e in sociologia come “deviante” – il che fu sempre discutibile in quanto anche il genio propriamente devia “dalla norma” e bisognerebbe per l’appunto esaminare che cosa sia tale (ma ci condurrebbe oltre il ns. discorso).
L’Autore rivive, testimonia le ansie, lo smarrimento, la fragilità e la pulizia del fratello con pennellate stupende,
«Molto amasti le nuvole bianche che sciavano nel cielo,
e come loro ti sentivi, arruffato e puro».
E continua in tale affresco con dolcezza infinita e fiumi d’ambrosia poetici: «…il volto alla luna,/ alle stelle puntuali, col suono dell’onda sui tuoi/ piedi nudi pensavi e pensavi al calore che ti/ mancava, alla tua bufera, in attesa, e poi piangevi/ […] Allungasti un braccio al cielo», ma c’è anche rabbia contro una morale ipocrita che ti condanna, ti emargina, ti esclude. Quella stessa “morale” che ti punisce se uccidi in tempo di pace ma ti pungola a farlo in tempo di guerra. È un attacco a quei “benpensanti” che hanno dimenticato anche il senso di pietas, alla latina, che è raccoglimento, meditazione perché dove c’è pietas c'è anche il senso del sacro. Ma l’“ipocrita” è sempre pronto a lanciare anatemi: desacralizza, dimenticando che tutti siamo “figli di Dio” al di là del colore della pelle, del sesso, della salute. Il fratello avverte di sentirsi attratto dal suo stesso sesso, si sente in colpa, a chi rivolgersi?
Al prete? O a quei «padri che picchiavano i figli, e mai una carezza/ una parola che aiutassero […] era la madre, ma pure lei troppo spesso le prendeva,/ innocente vittima di tradimenti mai reali». E quanto dolore e sofferenza lo investono in una società chiusa, patriarcale dove al “padre padrone” ogni cosa è permessa (v. p. 12, «tuo padre sempre via, di qua di là, anche a puttane/ tua madre prigioniera […]».
Vite periferiche, vite che popolano regioni precarie dell’esistenza, vite bruciate da piogge acide della “paura” omofoba (ma forse tali non vedono nel “diverso” loro stessi, le loro pulsioni?), di quello pseudo-progresso mentale cui vanno tanto fieri: loro sono nella “norma”, nei “ranghi”, non destabilizzano, loro sono “gente per bene”. Sì, i sepolcri imbiancati riappaiono perché mai spariti così come il nicodemismo. Che vuole il fratello? Non sesso ma come ogni esser umano desidera affetto, amore, vivere il suo sentire; ma gli è negato perché “diverso”, non lo è invece per lavorare, per spezzarsi la schiena.
Tenerezza e rabbia, con influssi, riferimenti e ricordi di un Garcia Lorca, di un Penna, di un Pasolini, si dipanano in questo tessuto, facendo risaltare la mediocrità antropologica di una società fissata in schemi rigidi e non libera di pensare l’altro: il comprendere le è estraneo.
Vorrei chiudere con un pensiero di Lévinas, il filosofo che ha cercato di guardare con occhi diversi, nuovi l’Alterità (con il saliente discorso su Le Visage): «Il volto è inviolabile […] Vedere un volto è già intendere: non ucciderai...» (da E. Lèvinas, Ethique et esprit).
E si può uccidere in tanti modi, sarebbe bene rimarcarlo.
Enrico Marco Cipollini
Antonio Seracini, Uguali e Diversi
Bonaccorso Editore, Verona 2012, pp. 68, € 10,00