– Puoi dirci la tua opinione sulla sinistra europea, dai partiti socialisti alla sinistra antisistema. Dove ti posizioni ideologicamente?
In realtà mi considero una persona trasversale, postmoderna, non amo definirmi con le classiche schematizzazioni politiche. Nonostante tutto, credo che in generale la sinistra europea sia stata troppo complice del totalitarismo cubano. In alcuni casi per miopia, per il desiderio di credere che l’utopia aveva trionfato nella nostra isola caraibica, in altri per semplice antimperialismo, del tipo più manicheo.
– Come vedi una risoluzione del possibile conflitto tra le due Cuba, quella di Miami e quella vera e propria dell’Isola?
Dopo aver trascorso alcuni giorni a Miami, sono ancora più convinta che la soluzione dei grandi problemi nazionali dovrà passare necessariamente dal lavoro congiunto di queste “due Cuba”, come tu le chiami. Non dobbiamo più chiamarci cubani dell’Isola e cubani di fuori, siamo cubani e basta. Gli esiliati cubani giocheranno un ruolo importante nella transizione: abbiamo bisogno delle loro conoscenze imprenditoriali e democratiche. Abbiamo bisogno di quella parte di Cuba che loro hanno conservato vivendo lontani.
– Hai fatto molti viaggi in diversi paesi. Come paragoni i diversi sistemi politici?
Continuo a pensare che a Cuba viviamo in un capitalismo di Stato, guidati da un clan familiare che non ci lascia neppure il diritto di protestare. Il governo è padrone di quasi tutti i mezzi di produzione e da questa proprietà guadagna un elevato plusvalore. In atri paesi ho visto molte ingiustizie, ma nonostante tutto - a differenza della nostra nazione - in molti di quei posti si ha la sensazione che in futuro le cose potranno migliorare, speranza che noi cubani abbiamo perduto da tempo.
– Se davvero il cittadino cubano è pronto per il cambiamento, è consapevole di quel che comporta? Perché una cosa è quel che pensiamo, un’altra è la dura realtà.
In realtà non siamo preparati al cambiamento. Ma nessuno è preparato al nuovo. Forse le madri sono preparate a partorire un bambino, curarlo e allevarlo ogni giorno, svegliandosi di buon mattino? Si apprende a essere madre soltanto dopo aver messo al mondo un figlio. A essere liberi, s’impara con la libertà.
– Che importanza hanno le reti sociali sullo scenario politico e sociale di molti paesi? Come credi che si svilupperà la situazione in Venezuela? Che consiglio daresti ai milioni di venezuelani che chiedono un cambiamento?
Non credo che soltanto la tecnologia ci renderà liberi, ma penso che le reti sociali e i nuovi strumenti tecnologici aiuteranno a costruire società più democratiche, pluraliste e partecipative. Nel mio caso, i blog, Twitter, Facebook e i telefoni mobili sono stati un percorso di allenamento civico. Raccomando ai venezuelani di non farsi rinchiudere in una prigione. Io che vivo in una gabbia insulare, posso assicurare che è molto più importante il rischio di volare liberi che la modesta dose di miglio che ci concedono dopo aver chiuso le sbarre.
– Puoi dirci chi finanzia il tuo viaggio in così tanti paesi?
Certamente. Ho risposto a questa domanda un’infinità di volte durante questo viaggio. Sono andata in Brasile con un biglietto comprato grazie a una colletta fatta via Internet, in maniera pubblica e trasparente. Chiunque avrebbe potuto contribuire in forma civica e spontanea. Nella Repubblica Ceca sono stata invitata dal Festival di Cinema “One World”, che ha coperto ogni spesa, come è normale in questo tipo di eventi. In Messico sono stata invitata dall’Università Iberoamericana, a New York dal Baruch College, in Olanda da Amnesty International… a Miami da mia sorella esiliata che ha messo da parte il denaro per invitarmi, in Perù da alcuni amici che ho conosciuto all’Avana quando facevo la guida della città. Infine sono arrivata in Spagna su invito dell’Editorial Anaya, per la quale ho pubblicato un libro, de El País, periodico dove scrivo con frequenza, e di molti amici che mi leggono e che mi sostengono. Non mi è mai mancato né un tetto né qualcosa da mangiare. La mia vera ricchezza sono gli amici! Ma non si deve sapere…
– Se a Cuba c’è tanta repressione, manca la libertà di espressione e si imprigionano i dissidenti, perché tu sei libera e puoi criticare così duramente il regime?
Sono contenta di rispondere a questa domanda. A Cuba c’è una forte repressione, io stessa sono stata vittima di molte forme di repressione: botte, arresti arbitrari, diffamazione senza diritto di replica, divieto di uscire dal mio paese in venti occasioni, minacce alla mia famiglia e vigilanza costante. Il fatto che sia uscita dal mio paese non è una concessione magnanima di Raúl Castro, ma una mia piccola vittoria dopo aver lottato a lungo contro le imposizioni governative.
– A Cuba buttano fuori di casa i cittadini con la forza e li lasciano per strada come accade da noi?
Sì, accade anche a Cuba. Basta leggere le denunce di sfratto che ci sono in rete e che non hanno mai avuto risposta. Non solo, molti cubani vengono dichiarati residenti illegali all’Avana e subito deportati a Oriente. “Mal comune mezzo gaudio” (in cubano è più esplicito: “male di molti consolazione per gli sciocchi”, ndt), si potrebbe dire, ma il fatto che voi abbiate gravi problemi non può farci tacere i nostri.
– Pensa ancora che Gabriel García Márquez non meritasse il Nobel?
Quando avrei mai detto una cosa simile? Prima di fare una domanda come questa, per favore, citi la fonte delle mie presunte asserzioni. Non si lasci confondere dalle campagne di diffamazione… Ammiro la letteratura di Gabo e sono una gran lettrice della sua opera, nessuno come lui ha meritato il Nobel. Conservo gelosamente la mia copia, letta un’infinità di volte, di Cent’anni di solitudine.
– Non crede che se a Cuba si vivesse così male il popolo si sarebbe ribellato? Non mi risponda dicendo che c’è la repressione, c’era anche sotto Franco, ma la gente scendeva per strada a protestare.
La paura è la sola spiegazione della mancata ribellione. I cubani esprimono il loro disaccordo emigrando… verifichi le cifre di quanti se ne sono andati.
– Tornerai al tuo paese dopo aver visto come si vive fuori?
Tornerò, perché per me “la vita non è in un altro luogo ma in un’altra Cuba” e voglio aiutare a costruire dall’interno la Cuba che desidero.
– Considera il sistema neoliberale che si è imposto in gran parte del mondo un’alternativa adeguata per sostituire il sistema vigente a Cuba?
Il sistema attuale cubano è già profondamente neoliberale… ci pagano in una moneta che non basta neppure per sopravvivere, il solo sindacato legale è nelle mani dell’unico governo consentito, non esiste diritto di sciopero, i licenziamenti abbondano… conosce un sistema più liberale?
– Crede davvero che la maggioranza della popolazione cubana desideri un cambiamento verso un sistema capitalista? Quale crede che sia il modello migliore per l’isola?
Ho detto spesso che Cuba vive da molto tempo in un sistema capitalistico. Dobbiamo smettere di credere alla propaganda del “socialismo” cubano, un sistema che maschera il peggiore dei capitalismi. Credo che la gran maggioranza dei cubani voglia vivere in un sistema che garantisca più partecipazione e meno proibizioni.
– Alcuni anni fa sono stata a Cuba e sentivo molte persone dire che avrebbero voluto un modello di transizione democratica alla spagnola. In realtà la nostra non è stata così perfetta… Come crede che sarà la transizione cubana?
Abbiamo il vantaggio di poter imparare dagli errori altrui, visto che abbiamo impiegato così tanto tempo per arrivare al cambiamento. Inoltre abbiamo l’opportunità di cominciare da zero. Dobbiamo definire per tempo una buona legge sui partiti e un finanziamento trasparente per garantire la politica della Cuba futura. Nessuna transizione è uguale a un’altra. Troveremo il nostro cammino… senza copiare nessuno, spero.
– Lei condanna l’imposizione di sanzioni economiche degli Stati Uniti nei confronti di Cuba?
Ho espresso la mia posizione persino davanti al senato degli Stati Uniti, quindi con la sua domanda piove sul bagnato. Ritengo che l’embargo nordamericano sia il pretesto più grande che in questo momento possiede il governo cubano per giustificare il degrado economico e la mancanza di libertà. Credo che debba finire quando prima.
– Cosa ne pensa della base navale di Guantánamo occupata dagli Stati Uniti? Non dovrebbe tornare di proprietà cubana?
La Base Navale di Guantánamo un giorno tornerà a essere proprietà dei cubani, ma OCCHIO… dei cubani… non dell’attuale governo di Cuba. Sono due cose diverse. Quando saremo un paese democratico, rispettoso del pluralismo, molto probabilmente questo argomento diventerà prioritario.
– Yoani, lotti con coraggio per la libertà. Prima del 1959, a Cuba le disuguaglianze erano notevoli. Adesso non tutto è perfetto. Ci sono i privilegiati del sistema, è vero. Ma anche gli altri cubani godono di un sistema sanitario e di un sistema educativo, possiedono una casa – anche se cadente – e mangiano ogni giorno. In tutta l’America Latina ci sono condizioni di miseria, molti non hanno neppure la millesima parte di quel che possiedono i cubani. Come dovrà essere lo sviluppo economico di Cuba per evitare di fare quella fine?
In realtà da molto tempo non è vero che a Cuba non esistono differenze sociali. La Cuba attuale si divide tra coloro che hanno accesso alla moneta convertibile (dollari mascherati) e gli altri che devono vivere solo con il salario (pagato in pesos cubani). Si tratta di una Cuba dura, brutale, con grandi sacche di povertà. Il problema principale è che “Robin Hood” sa togliere le ricchezze ai ricchi per distribuirle ai poveri, ma non sa creare ricchezze… quando queste finiscono… alla fine tutti restiamo poveri.
– Yoani, lei è diventata una dissidente perché l’ha voluto o perché la dittatura castrista con la sua persecuzione l’ha resa famosa? Si sarebbe mai immaginata di arrivare a questo punto?
Ogni uomo dipende dalle circostanze. Fidel Castro sarebbe stato lo stesso uomo se non fosse esistito Batista? Non credo… Inoltre non mi considero una dissidente, qualifica importante che meritano più di me altri attivisti cubani, ma una cronista della realtà. Il problema è che a Cuba la realtà è profondamente dissidente. La realtà nella nostra Isola è la negazione costante della retorica ufficiale.
– Ha mai pensato di realizzare un reportage sulle condizioni di vita delle piccole realtà dell’interno di Cuba – luoghi dove l’oscurantismo politico ed economico sono più aggressivi – per stigmatizzare le differenze sociali che esistono rispetto all’Avana?
Lo faccio costantemente. Mi reco spesso nelle piccole cittadine dell’interno di Cuba per impartire corsi, per insegnare ad attivisti politici come si usa Twitter grazie a un telefono mobile non collegato a Internet. La mia piccola soddisfazione è che adesso in molte di quelle realtà periferiche c’è gente che racconta quel che accade usando 140 caratteri, grazie ai miei corsi. Il mio motto è: “raccontati a te stesso”.
– Cosa pensi della reazione di Henrique Capriles e dei suoi dubbi sulla regolarità delle elezioni in Venezuela? Credi che Maduro accetterà un risultato diverso dopo aver contato di nuovo i voti?
La richiesta di contare di nuovo i voti è stata molto giusta. Non credo che Nicolás Maduro accetterà un risultato sfavorevole, ma non c’è peggior battaglia di quella che non si combatte.
– Come pensi che sia possibile evitare le disuguaglianze sociali ed economiche in un sistema parlamentare? Nei sistemi democratici, infatti, il divario tra ricchi e poveri cresce sempre di più…
A Cuba le differenze sociali sono abissali. Per esempio tra un gerarca in verde oliva e un cittadino comune c’è un abisso grande quanto tra un re e un semplice operaio, forse anche di più. La casta che governa Cuba ha potere di vita e di morte, decide sull’educazione dei nostri figli, sul medico che deve visitarci, sulla nostra libertà di movimento… Il sistema parlamentare, nel nostro caso, servirà a ridurre certe differenze, farà in modo tale che una “casta di eletti” non possieda un potere così grande su ogni dettaglio della nostra vita quotidiana.
– Come le sembra il giornalismo che si produce fuori da Cuba? È proprio come se lo attendeva?
Mi è sembrato un giornalismo con luci e ombre, moderno, in crisi, ma ogni crisi produce un parto. Ogni crisi implica una rinascita. Purtroppo, all’interno di Cuba, quel che si produce in ambito ufficiale non si può neppure chiamare giornalismo. Inoltre, i miei colleghi giornalisti indipendenti, blogger e giornalisti civici corrono molti rischi per ogni parola che scrivono, per ogni denuncia che fanno. Spero che un giorno non lontano i cubani potranno fare giornalismo senza rischiare di perdere la libertà e di essere linciati dai media ufficiali.
Redazione de El País
(da El País, 19 aprile 2013)
Traduzione di Gordiano Lupi