“Forse i miei occhi hanno
una grande memoria di tanti secoli”
Louise Nevelson
Louise Nevelson (Leah Berliwskij), sebbene sia nata nel secolo precedente (1899), la sua produzione appartiene pienamente alla seconda metà del Novecento. Figlia di commercianti di legname di Kiev – dai quali erediterà una straordinaria familiarità con il legno – Louise emigra con la famiglia, quando è ancora bambina, negli Stati Uniti. L’arte è per lei una vocazione; alunna di Diego Rivera, Behn Shahan e Hans Hoffman, non vi rinuncia neppure quando il marito, Charles Nevelson, vi si oppone, progettando per lei una “normale vita da madre di famiglia della classe media”. Ottenuta la separazione, si trasferisce a Monaco, ma è l’incontro con l’arte africana, conosciuta a Parigi al Musée de l’Homme, a segnare la sua vera svolta stilistica e a indurla a collezionare opere d’arte africane, pre-colombiane e indiane d’America.
Da questi oggetti coglie le suggestioni per le proprie creazioni: assemblage di pezzi di legno trovati per strada, objets-trouvés di ogni genere che conservano nella loro materia i ricordi di vite passate e testimoniano con la loro silenziosa presenza lo scorrere del tempo e della storia dell’umanità. Ciascuno di questi oggetti, o pezzi di oggetto, conserva in sé un mistero che Louise Nevelson decide di mettere in evidenza, coprendo la superficie delle sue sculture di un colore uniforme, spesso scegliendo il nero, che nelle mani dell’artista ritrova il suo più profondo significato simbolico e trascendente. Quelle della Nevelson sono vere e proprie cattedrali costruite con oggetti quotidiani assemblati o con scatole contenenti utensili domestici che, una volta coperti con un unico colore, rivelano l’essenza della nostra vita, perché – come sostiene la scultrice – “la vita è nella sua essenza un mistero”. La Nevelson otterrà molto tardi i primi riconoscimenti. Lei non se ne stupisce, individuando nella povertà dei materiali da lei scelti una delle cause della sottovalutazione della propria opera: “Se pensiamo alle persone ricche ci accorgiamo che investono in materiali molto costosi. Di conseguenza non prenderanno mai vecchi pezzi di legno e non potranno mai capire il loro valore”. La sua prima mostra personale risale al 1941, ma bisogna aspettare fino al 1959 per vedere una sua opera esposta al Museum of Modern Art di New York. Il tempo, però, ha dato ragione alla sua caparbietà e alla sua coerenza: le sue opere sono esposte oggi nei più celebri musei del mondo. Le sculture di Louise Nevelson, scomparsa nel 1988, hanno aperto la strada alla sperimentazione femminile nel mondo dell’assemblaggio e dell’istallazione.
Alla Fondazione Roma Museo- Palazzo Sciarra, a cura da Bruno Corà, si è aperta fino al 21 luglio 2013 una importante mostra a lei dedicata.
Le “scatole”, presenti in mostra, che racchiudono oggetti e piccole sculture, dipinte prima in nero, poi in bianco, poi in oro (dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi), fra le sue prime opere a suscitare il consenso entusiasta del mondo dell’arte newyorkese a dispetto del sesso dell’autrice, sono oggetti intimi, contenitori protettivi, che potrebbero compensare un senso di insicurezza. Sono opere come le famose sculture-collage, che presentano varie parentele, forse non tutte consapevoli, per esempio con i rilievi di Picasso, con Giacometti surrealista, con il primo Brancusi, con i pezzi coevi di Louise Borgeois. Ma è indubbiamente solo suo e in certo senso femminile il chiudere e richiudere, quasi cesellando, l’oggetto e la memoria dentro un involucro accogliente, materno. Femminile anche il piacere del contatto primitivo e primario con la materia naturale, che non comporta l’utilizzo di tecniche complesse o industriali e non impedisce il conseguimento di una dimensione potente, monumentale, soprattutto nei muri degli anni sessanta e successivi.
Si tratta comunque di un femminile molto lontano dagli stereotipi, metaforicamente tanto vasto e forte da abbracciare la totalità delle cose. L’artista ne è ben consapevole e fiera: «Questo è l’universo, le stelle, la luna, te e me, tutti» dice un suo lavoro.
Nevelson rivendica sempre, con energia, con encomiabile costanza e determinazione l’instancabile diritto a essere se stessa, senza limite alcuno, in particolare da parte degli uomini. E non è casuale la sua insofferenza nei confronti del matrimonio, riflessa anche in alcuni lavori del 1952, come Bride of the Sea, o Bride of the Black Moon, che toccano proprio questo tasto problematico e preoccupante. Le sue spose sono strane, sole, nere. Vedove – vergini, il loro destino sembra poter essere tutto fuorché felice.
Maria Paola Forlani