La scorsa settimana 10 senatori del PD, tra cui lo scrivente, hanno sottoscritto un progetto di legge di un solo articolo che abolisce il rimborso elettorale ai partiti spiegandone le ragioni nelle premesse e indicando un percorso virtuoso, a nostro avviso, per sopperire al taglio ricevuto.
Visto il tema delicato sarà meglio sgombrare il campo da equivoci: non si tratta semplicemente di soldi, ma di trasparenza, fiducia e, finanche, partecipazione, ingredienti essenziali per la vita democratica. Ecco perché ritengo che sia politicamente un grosso errore, o se preferite un equivoco, discutere nel merito richiamandosi a questioni di mero principio.
Che la politica costi credo lo possano capire tutti, che per la democrazia sia essenziale che tutti possano fare politica, anche. Tuttavia trovo che l'impostazione classica del finanziamento pubblico dei partiti non sia in sintonia con la realtà italiana in questo momento. Per motivi precisi e circostanziati.
In Italia nel 1993, in piena tangentopoli, il referendum dei radicali passò con oltre il 90% di sì all'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, istituito nel 1974. Nello stesso anno le forze politiche reintrodussero quel finanziamento sotto forma di rimborso delle spese elettorali.
Da allora è stato un continuo ritoccare la norma fino a portarla dai 46 milioni di stanziamento iniziale agli attuali 506 milioni di euro (spalmati su 5 annualità indipendentemente dalla durata della legislatura e sganciati dalle spese realmente sostenute in campagna elettorale, cui si aggiungono i 323 delle regionali e i 356 delle europee). Nel frattempo in Italia abbiamo avuto il distacco dei cittadini dalla politica, gli scandali Lusi e Belsito, le tristi vicende dei fondi concessi ai gruppi consiliari regionali con le indagini della magistratura in corso, il crollo della fiducia nei partiti, un dato elettorale di protesta evidentissimo, la crisi economica più violenta mai conosciuta. Rimango perplesso quando si discute di questo tema astrattamente, come si trattasse realmente di un principio della scienza politica le cui ragioni siano da ricercare nell'agorà ateniese, non vedendo che si tratta di arginare e guidare una vera emergenza sociale.
Il tema di come un partito si finanzia non può e non deve essere più disgiunto da quello di come quei soldi li spende, dalla trasparenza dei suoi bilanci, dalla reale possibilità di controllo che chiunque deve poter esercitare.
Probabilmente ciò comporterà un forte dimagrimento e una revisione efficiente della macchina, ma dovrebbe apparire chiaro che non operarla diverrebbe segno evidente di poca credibilità rispetto alla volontà o capacità di fare altrettanto sulla struttura pubblica e dunque nessuna efficacia nel convincere la società a seguire il medesimo cammino virtuoso di trasparenza, efficienza, controllo.
Ci si dovrebbe inoltre domandare se la massiccia presenza di soldi pubblici elargiti in questo modo opaco abbia in qualche modo impedito che vi fosse una disparità di mezzi nel fare politica tra chi dispone di ingenti capitali e chi non vi dispone (...) o se questo meccanismo non sia, al contrario, una spinta a campagne elettorali sempre più costose e dunque un'implicita restrizione dell'esercizio della politica a chi riesca a disporre di fondi in maniera più o meno occulta.
Trasparenza e partecipazione. Obbligare alla rendicontazione analitica delle spese, relativi controlli, e ripristinare un rapporto diretto tra soldi ricevuti e volontà del cittadino sulla destinazione di quei soldi, imponendo magari nel contempo un tetto di spesa per le campagne elettorali.
Tra le varie possibilità che si hanno per ottemperare a questi principi, una volta che si sia eliminato il sistema attuale, mi sembra molto utile per il confronto quella di iniziativa popolare proposta dalla fondazione per una nuova Italia che, abrogando come noi abbiamo proposto i rimborsi elettorali, introduce la possibilità di un credito di imposta del 95% (per me eccessivo) per i contributi volontari dei cittadini ai partiti. Sotto tale ipotesi, ad esempio, se il PD ritenesse di voler ottenere ciò che annualmente gli deriva dal sistema attuale per le elezioni politiche, ovvero 45 milioni di euro, dovrebbe semplicemente persuadere 23mila elettori a “versare” 100 euro ciascuno per ottenere il medesimo importo (versamento di 2.000 euro con restituzione da parte dello stato di 1.900 euro come credito di imposta). Un obiettivo decisamente alla portata di tutti.
Mi sembra che queste misure sarebbero un segno di cambiamento reale e convincente, avrebbero il pregio di ristabilire una relazione diretta e di fiducia tra i partiti e il loro unico vero patrimonio: i cittadini.
Scegliere questa sfida, e non subirla, è la differenza che passa tra salvare i partiti e cambiarli, piuttosto che gettarli definitivamente nel discredito con grave rischio per la democrazia.
Mauro Del Barba