Non ho nessuna competenza per entrare in quella zona oscura della mente, in quel cono irreversibile d’ombra che un uomo varca come unica chance rimasta a dimostrare insieme alla sofferenza, la “sedicente” dignità. Mi riferisco al suicidio e al senso di colpevolezza, responsabilità, vuoto e dolore che lascia una decisione così azzerante.
Ricordo che anni fa, spesso discutevano in televisione esperti psichiatri e i fatti venivano almeno sottoposti a lettura. Psichiatri come Stefano Caracciolo e Paolo Crepet, esperti de “la dimensione del vuoto” hanno contribuito e offerto un grande aiuto alla meditazione e alla attenzione. Oggi non è più così, ma è importantissimo e gravissimo che si sia ormai dato per scontato l’assioma che “perdere il lavoro” venga a significare “la fine della dignità personale”. Chi diventa povero (perché i poveri “ altri” ci sono sempre stati ) è non più persona, padre, marito, cittadino… è niente. Se non si produce quindi ci si rottama da soli. Questa la posizione della stampa. Almeno di quanto ho letto.
Che sempre più si coniughi la dignità come necessario elemento a quanto e se si produce, è a mio avviso profondamente devastante e lancia un messaggio che certamente non aiuta e spinge al convincimento che niente valga e che a niente ci sia soluzione. Deleterio messaggio anche e soprattutto per i giovani dei quali poi ci si meraviglia della mancanza di empatia, curiosità e ricerca. Nessuna attenzione alla solitudine, all’emarginazione, alla mancanza di comunicazione, alla possibile ed umile richiesta d’aiuto, niente per gli sguardi distratti di chi sembra aver paura a dire “hai bisogno?”… niente che consoli la paura, la miseria?… niente da tanto tempo.
Oggi sembra che finalmente si sia potuto dare un nome al deserto umano e finalmente si chiama “crisi”. Riporto una frase di Pannella a conclusione di queste poche righe: “quando incontro qualcuno non chiedo mai da dove venga e cosa abbia fatto ma se, anche per poco, potremo camminare insieme: diamoci la mano”.
Patrizia Garofalo