S. Anna di Stazzema, L’eccidio. È il titolo dell’ultima pubblicazione di Sergio Caivano, fresca di stampa, copiato dal cartello posto sull’autostrada che va da Genova a Livorno, all’altezza della Versilia. Si tratta d’un libro di 73 pagine, che si legge agevolmente per la scorrevolezza della scrittura, rivivendo, a mano a mano che si procede nel testo, il “pathos profondo” di cui parla nella sua Introduzione l’autore.
Egli ha visitato il piccolo paese martire qualche anno fa, spinto dalla lettura del libro di Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna. Com’è noto, nel 1994 fu scoperto dal giudice Antonino Antelisano, nella sede della Procura generale militare a Roma, un armadio, chiuso, con le ante rivolte verso il muro, protetto da un cancello di ferro. Lì erano occultati 695 fascicoli, di cui 280 rubricati a carico di ignoti nazisti e fascisti, gli altri 415, invece, a carico di militari tedeschi e italiani identificati. L’elenco proveniva dal comando dei servizi segreti britannici, che avevano raccolto le denunce dei parenti delle vittime, integrandole con accertamenti e rapide istruttorie. I giudici italiani pensarono bene di rendere pubbliche le denunce contro ignoti, ma solo dal 1960 in poi, e di trattenere nell’armadio gli elenchi con nomi e cognomi dei criminali. Perché? La ragione principale, non l’unica, va forse individuata nell’opportunità di nascondere i crimini perpetrati dalle truppe tedesche in Italia in un diverso quadro internazionale che vedeva la rinnovata e democratica Germania di Adenauer a fianco della Nato in funzione antisovietica. E così giustizia non è stata fatta né allora né adesso, perché i superstiti della strage di Sant’Anna, condannati all’ergastolo dalla magistratura italiana, sono stati prosciolti dalla magistratura tedesca di Stoccarda con l’affermazione che non ci sarebbero prove sufficienti che abbiano partecipato all’eccidio! A commento leggiamo nel libro: «Con questa sentenza la strage del piccolo borgo apuano resta impunita».
Il racconto della visita non è all’inizio, ma segue le pagine dedicate alla strage, collocate in posizione centrale. L’opera è, infatti, molto ben strutturata, con brevi capitoli corredati da ricco materiale fotografico. Quelli che precedono il principale, che racconta l’eccidio, servono a inquadrare l’episodio di Sant’Anna all’interno del sistema terroristico tedesco, che fu talora frutto di iniziative autonome di singoli gruppi, ma per lo più venne pianificato dall’alto, soprattutto dopo che il feldmaresciallo Kesselring aveva concesso carta bianca a qualsiasi forma di repressione.
Riassunta la vicenda dell’armadio della vergogna, il testo prosegue con l’evocazione di alcune stragi nazifasciste in Italia fin dal settembre ’43 per soffermarsi, poi, più a lungo su quanto accadde a sud della linea Gotica, dove i numerosi episodi di barbarie mostrano un salto di qualità rispetto alle precedenti operazioni. Occorreva ai tedeschi tener sgombra dalla presenza partigiana la zona a valle del fronte. Così, al fine di stroncare ogni possibile collegamento tra patrioti e popolazione, fu scatenata quella che gli storici definiscono “guerra ai civili” con massacri efferati in un crescendo di violenza. Il capitolo ne enumera diversi, preparando, in tal modo, il successivo racconto della strage di Sant’Anna. Questa non è qualitativamente diversa dalle precedenti e successive; se ne distingue solo per lo spaventoso numero delle vittime, 560 innocenti. Scrive il Caivano: «Vengono trucidati due parroci, 300 donne, fra cui quelle incinte, dopo aver subito trattamenti agghiaccianti, 140 ragazzi e bambini, la più piccola Anna Pardini di soli venti giorni, 120 vecchi». I cadaveri verranno bruciati con i lanciafiamme.
I capitoli che seguono il racconto della visita al paese sono, per lo più, riferiti al presente, con interessanti testimonianze di alcuni superstiti. Ne cito solo una, quella di Enio Mancini, allora ragazzo, che si salvò, lui e la sua famiglia, perché il soldato tedesco incaricato di ucciderli li fece invece fuggire, sparando in alto per simulare l’avvenuta esecuzione. Ormai morto il soldato buono nel 1990, Enio Mancini ha potuto conoscerne il nipote a Roma nel 2010 in un incontro denso di commozione da entrambe le parti.
Perché gli anziani ricordino – Perché i giovani sappiano: sta scritto all’interno della copertina. Un buon motivo per leggere il libro.
Bianca Ceresara Declich