Nella sua stanza è tutto talmente fermo che percepisco i movimenti di qualsiasi essere vivente di qualsiasi dimensione e peso.
Così penso che il silenzio sia popolato di piccole presenze con cui convivo docilmente nel buio. Senza fretta. Distesi e sospesi, sento la presenza di tanti piccoli occhietti chiusi che fanno piccoli sogni. Tante piccole zampette che si stiracchiano nelle mattine primaverili. Nella campagna bagnata di rugiade e velata di raggi scintillanti.
Nella stanza il silenzio è talmente spesso che pesa sul petto e sulle gambe ed io sento il torpore di tutta una notte aggrappato alle orecchie e alla pancia. Fatica a lasciare il mio corpo ma io lo trattengo con piacere. Lo lecco. Genera la piacevole sensazione di aver dormito e di essere ancora sveglia. Mi rassicura. Mi coccola ed io divento una stella marina. Mi allargo e mi strizzo. Mi rigiro e mi scopro sempre uguale a prima e non è un dettaglio.
Sento il corpo spiegazzato riprendere le forme del giorno, pronto ad accogliere la verticalità e la pesantezza della gravità quotidiana. Mi stiro. Faccio versi che sembrano bestiali. Sbadiglio.
Gli occhi cominciano lentamente a inumidirsi e le palpebre cominciano docilmente a svelare il buio che senza fretta diventa meno buio, che pigramente diventa più luce.
Nella penombra il suo corpo sembra un bozzolo di stoffa, immobile come una salma. Aspetta che il giorno sveli un corpo vivo e nudo, coperto solo da quei buffi calzoncini blu. Lentamente sollevo la testa e vedo il suo viso spuntare appena dal lenzuolo. Il lenzuolo respira. Io respiro. La stanza respira. La finestra risucchia il fiato e il vapore dei corpi per restituire odore di giorno e piante e fiori e terra appena bagnata.
Improvvisamente mi ricordo.
Oggi è Domenica e le promesse sono promesse.
Con quel viso sereno. Nella tranquillità della stanza. In quel momento. Con quell’odore. In quella primavera. Nella nostra intimità. Tutto sembra perfetto e quasi mi commuove la felicità che provo e quasi mi fa esplodere le vene quella folle gioia che sento salire fino alla testa.
Improvvisamente un’energia infinita mi costringe ad alzarmi di scatto per celebrare quel momento con un ultimo inchino prima di verificare l’effettivo risveglio di tutti e cinque i sensi più uno: l’amore infinito.
Tutto è come dovrebbe essere. Tutto è al posto giusto e sdraiato su quel letto c’è l’essere umano più importante della mia vita. Ed io lo guardo. E me lo gusto come un leccalecca, come il più saporito dei cibi. E me lo sento mio, come nessun’altra cosa al mondo, come se il mio amore m’invadesse nel corpo e dentro gli occhi che vedono un’unica immagine. Il suo viso che mi guarda e le sue mani che mi accarezzano il corpo e i suoi occhi che guardano i miei occhi. Istanti così caldi da mettere sete e io sento la sete che mi secca la lingua e mi corrode il palato e voglio bere e sentire ancora il fresco che mi ristora.
Vado a bere. Scalza. Mi avvicino alla cucina.
Dalla luce che inizia a entrare capisco che la primavera si è impegnata molto oggi.
Bevo.
Mi stiro ancora e comincio a sentire i muscoli e la vista si abitua e il corpo si prepara a ricevere il sole e l’aria tiepida che spiffera e si ferma.
Sento appena il rumore delle federe e del lenzuolo che increspano il silenzio e mi arrivano come onde di un lago e s’infrangono contro le pareti di pietra e cemento.
Andrea si sta alzando.
Ritorno lievemente in camera e scorgo i movimenti di un corpo morbido sepolto sotto il torpore elastico e strascicato della notte sfumata in giorno, appena qualche istante fa. Appena un minuto fa.
Adesso.
Vedo ancora la scia buia fondersi con la luce che scivola sotto la porta chiusa sulla campagna tranquilla e fiorita.
Immagino quel prato e vedo quei monti e sento ancora la fiducia della prima volta e la prima carezza e ancora rivedo le tue mani e il tuo viso sprofondato nella mia pelle a fondersi dentro la mia anima passando per la mia carne tenera e giovane.
Risento la stanchezza della mia solitudine lasciare la speranza a mani esperte e coraggiose e sento che il mio cuore è in quel prato e rotola giù insieme a noi, tra l’erba e le siepi di lavanda, a ricordare sempre di più il mio amore, fini a sprofondare a valle dentro la città che ci ospita nell’inverno e negli inverni si fa meno grigia perché hai occhi così belli che vedo ancora quel verde.
Sento la porta del bagno e tutti quei rumori familiari che mi fanno sempre sentire come se la casa mi abbracciasse tutti i giorni prima che lui esca, prima che lui ritorni. Sempre mi parla di noi e tutto ricorda noi.
Aspetto che sia pronto.
Le promesse sono promesse.
E oggi è domenica no?
Sì è domenica e la domenica torniamo spesso in quel prato.
La doccia.
I vestiti.
Un saluto distratto.
Non reagisco ma non capisco bene quella freddezza. Ripenso ieri. Mi chiedo cosa posso avere fatto. Non trovo un motivo.
Non credo sia colpa mia.
Io sono già pronta e aspetto che anche lui lo sia.
Aspetto.
Lui passa e ripassa. Ripassa e passa. Non mi guarda se non di sfuggita. Vorrei chiedere perché ma non posso. Non riesco. Rimango immobile a pensare e quella primavera mi sembra già più autunno e meno campagna.
Resto a guardare il buio che cambia e diventa più luce e meno nero e più chiaro.
Andrea mette in bocca un dolce.
Beve un caffè.
Io non mangio nulla.
Non ho fame.
Beve un caffè. Nero. Senza zucchero. Con latte. Non mescola e sorseggia con calma.
Con un occhio mi sfiora e mi rimane come una cicatrice sulla pelle.
Certamente avrò fatto qualcosa che non andava fatto e certamente non lo capisco.
Lui si allontana un momento e ritorna con la giacca.
Mi dice di andare lì vicino a lui.
Mesta mi avvicino timidamente.
Lui si abbassa e aggancia il guinzaglio al mio collare.
Apre la porta.
Una luce abbagliante mi investe e mi scalda immediatamente. Usciamo dalla porta ma lui non è come sempre. Non parla.
Non mi guarda. Non mi accarezza. Non mi parla. Non mi sente. Non mi sgrida. Non mi tira.
Semplicemente cammina e io dietro. Semplicemente cammina e io dietro. Semplicemente cammina e io dietro.
Semplicemente, così.
Io dietro.
Prendiamo la macchina che ci porterà dove lui vuole andare. Prendiamo la macchina e io penso, salendo, di aver fatto qualcosa che non andava fatto.
Ma non ricordo cosa.
Non ricordo perché.
Mi siedo dietro.
Andrea accende la macchina.
Partiamo.
Io guardo la strada che scorre.
Dentro scorre il silenzio.
Il suo sguardo è perso oltre il parabrezza.
Il mio è perso in lui.
Io guardo la strada e penso a cosa posso avere fatto.
La strada non è la stessa.
Non lo è per nulla ma io non mi preoccupo e penso a cosa posso avere fatto.
Finalmente vedo il verde. Alberi. Campagna. Siepi. Erba.
La macchina frena. È uno spiazzetto con la ghiaia. Tutto in torno alberi.
Andrea scende.
Apre la portiera.
Io scendo.
Prende il guinzaglio.
Ci avviciniamo a un albero sottile.
Con fare sbrigativo lega il guinzaglio all’albero mentre si allontana.
Entra in macchina. Veloce. Sgomma e schizza ghiaia.
Il rumore piano piano diventa sempre più leggero fino a ritornare silenzio, un silenzio lancinante, avvolgente, freddo e sconsolante.
Se avessi lacrime le verserei tutte per creare laghi di fango profondi come tutto il mio dolore. MUOIO!
SONO SENZA MONDO!
E io rimango lì seduto disperata ad aspettare che ritorni.
E penso colpevole: “prima o poi mi verrà in mente cosa ho fatto”.
Marco Sanna
(da Diciannove carezze, EIF, 2013
per gentile concessione di autore ed editore)