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In libreria/ “Diciannove carezze” di Marco Sanna 
Prefazione di Matteo Bianchi
22 Marzo 2013
 

Io, alla parola partorito.

 

Non la più bella ma quella più intensa; quella

che si possa dipingere con diciannove pennellate esatte.

Il pezzo di vita che più assomigli ad una mano

che accarezza una guancia per diciannove volte.

La pace che si siede ad aspettare tra le braccia.

 

L’Emma irrintracciabile, con la quale Marco Sanna apre il racconto che determina il ruolo di chi scrive nei confronti del proprio scritto, richiama sia all’Emma Bovary di Flaubert, sia all’Emma di Jane Austen. La prima, poiché fu Flaubert stesso a identificarsi con il suo personaggio, «Madame Bovary, c’est moi», fa sì che Sanna confessi indirettamente al lettore essere un poco dentro a ciascun personaggio del volume, alcuni dei quali volutamente senza nome, quasi siano freudianamente volti differenti e divergenti di un unico io, un io partorito alla parola; anche l’acrilico di Ferdinando Franguelli scelto per la copertina si allaccia alla raccolta e specchia più volti a seconda del punto di vista. A suo modo l’Autore connota l'interesse a più realtà sovrapponibili pur nel contrasto apparente dato che apparente è la vita, o quella che supponiamo tale, e per viverla occorrerebbe una dimensione polisemica che la sgrani piano piano, tanto una fotografia troppo ingrandita che suggerisca ipotesi per «attraversare nell'ascolto» il mondo, «eppure è bello / anche così» afferma nel suo Epilogo in versi Claudio Gamberoni. La seconda, Emma Woodhouse, siccome Austen, prima di cominciare a scrivere il romanzo, predisse che la sua eroina non sarebbe piaciuta ad alcuno, bensì a lei soltanto, invece Bovary si spregiava allo specchio dopo avere commesso adulterio nei confronti di Charles, il marito medico. Inoltre il testo di Austen esordisce con un’«Emma Woodhouse, bella, intelligente e ricca, con una casa confortevole e un carattere allegro, sembrava riunire in sé il meglio che la vita può offrire, e aveva quasi raggiunto i ventun anni senza subire alcun dolore o grave dispiacere»; diversamente da Anita, figura chiave che, quanto la punta di un ago impugnato da chi legge, si trascina dietro il fil rouge emotivo dell’Autore racconto dopo racconto. Difatti le diciannove carezze premurose che si ripetono come una nenia prima che Anita si addormenti, non sono altro che le diciannove pennellate con cui il pittore del secondo scatto prosastico, del secondo murales, esige di dipingere qualunque tela della sua esistenza sopravvissuta alla morte della figlia: Anita, appunto, appena compiuti i diciannove anni. L’Arte salva la vita poiché le attribuisce un significato, «salva gli occhi», li conduce a una meta, benché semplicemente estetica. L’Arte riempie la realtà e aiuta ad accettarla, talvolta con la giustificazione della Bellezza. Perciò l’Emma indecifrabile dell’incipit non riuscì a fermarlo, non poté – probabilmente un suo amore, nel senso più esteso del termine –, perché il suo significato non era determinato quanto quello che aveva spinto alla dipartita l’amato, ed ella «comprese che anche il tempo può smettere di esistere» nella tempesta dell’interiorità.

Marco Sanna tramite i suoi personaggi entra ed esce dall’opera d’arte, mette a fuoco, e dichiara con lo stile intimo del pittore di «cercare l’essenziale», ovvero la misura dell’essenzialità, significa avere maturato la volontà di farsi bastare diciannove pennellate, nemmeno sprecando un solo tentativo; ognuna diviene fondamentale, unica per la vita che riattribuisce al suo sguardo. Allora il paradigma, il passo da mantenere diventa la locuzione “non ancora”: ci sono scrittori del “nonostante tutto”, quali il poeta Paolo Ruffilli, e altri del “tutto sommato”, tra cui il cantautore Rino Gaetano. L’Autore si distingue per un “non ancora” che non vuole scegliere, definire, circoscrivere nella dignità che tende a ridare speranza a un’esistenza, e non può sbavare di un segno, sebbene sappia che sbaglierà senza rimedio; ma questo dimostra essere il gusto del gioco feroce di vivere.

Alla diciannovesima pennellata lo spirito del pittore, dell’artista in generale, si concretizza altrimenti: uscito dal soggetto, per mezzo delle movenze dei suoi stati d’animo e per mezzo della sua forza d’animo, raffigura l’oggetto della faticosa ricerca, l’altro, altro da sé, però di schiena mentre si allontana camminando dalla mano che lo ritrae. «L’uomo di schiena» è già passato nel momento in cui l’ha completato, è sistemato nel cassetto dei ricordi. Rispetto a lui non esiste più attivamente, bensì può solamente rivisitarlo dentro la memoria… di Anita, i cui diciannove anni vissuti sono nel non tempo interiorizzato assimilati a diciannove battiti di setole sulla tela, in un sogno pulsante che amaramente non avrà un finale, una pace, fino a che gli occhi del pittore non si chiuderanno per non riaprirsi.

Sulla copertina di Ieri, romanzo mesto di Agota Kristof, la Redazione di Einaudi ha isolato un particolare di una foto di Rodney Smith, il fotografo dell’inconscio: la sagoma di un uomo, di spalle, con cappello a tese larghe. Davanti a lui un mare grigio e piatto. I colori bigi e pallidi, lo sfumato tra cielo e acqua sono indizi di un “umore nero”, volendo avvalersi della medicina ippocratea. Un “dolce oblio” che pervade il carattere, rendendolo profondo e orientato alla quiete e all'introspezione. Inoltre il temperamento malinconico è abbinato al clima autunnale, velato dalla nebbia spesso frequentata da coloro che abitano in pianura e che Miro, protagonista del primo brano, ha imparato a conoscere: «con la tristezza della prima nebbia». Un altro “umore” che prevale nell’opera di Sanna è quello rosso, attivo e stravagante, che collega una volontà di pienezza al coraggio, al sacrificio, alla gentilezza, ai sentimenti decisi e agli impeti di passione. Il rosso suscita sempre qualche sensazione dentro. E dalla mescolanza dei quattro “umori” della tradizione medica greca risulta la pluralità delle personalità, alchimia insondabile e involontaria, associabile all’intervento dal basso dell’Es irrazionale e dall’alto del Super Io morale sull’Io freudiano. Miro, che a seguito di una sconosciuta malattia ha perduto la capacità di leggere le parole e fa collages su qualsiasi superficie per trattenerle, nel presente teme di perdere Sara, l’amata che gli legge di Emma, la sola che consenta di intendere la vita a lui, imprigionato «nella penombra di un desiderio». Egli porta la sua croce nel nome, dal latino “mirari”, “meravigliarsi”, a cui manca un accento per essere completamente creativo: quello acuto sulla “ó” di Joan Miró.

Miro d’altronde è un bambino che subisce sulla pelle di non potersi stupire se non grazie alla vicinanza, al fianco di qualcuno. Forse l’Autore suggerisce proprio questo al lettore, che invecchiare sia lo smarrimento della direzione, della vibrazione nella pronuncia delle frasi, causato dalle abitudini: «in quel mare di indifferenza, di solitudine e di lavoro, sempre lavoro, solo lavoro». Nella Lettera di un bimbo, terzo frammento dell’affresco, si affaccia la Lettera al padre di Kafka, in cui alla paura dello scrittore ceco, l’Autore sostituisce un’incomprensione di fondo con la figura paterna, la quale gli ha impedito di rispondergli al momento opportuno, fatidico, e lo ha mosso alla stesura di una missiva che mai partirà, giacché magari «non c’era bisogno» di scriverla e sarebbe bastato riconoscersi negli occhi, interpretarsi.

La prosa di Sanna è immaginifica e coinvolgente, non ridondante, né eccessivamente dettagliata nelle descrizioni; è il raggiungimento di un equilibrio – dato che «stare in bilico è meglio che cadere» – probabilmente anche del respiro tra la gente, com’è sovente rafforzato dall’utilizzo del discorso diretto, che lascia spazio al dialogo, al confronto con il “diverso” più o meno personificato, e che si ritrae in una meditazione corale per sedimentare sul foglio bianco. «Una strada bianca», un tono che spaventa l’Autore più del Nero, un estremo dell’arcobaleno che di fatto non c’è, siccome testimonia l’assenza di tutti gli altri colori. La prosa di Sanna ha il coraggio di spersonalizzarsi, di abbandonare – considerato che di abbandonare un abbraccio mai eterno, purché astratto, si tratta – la dimensione individuale della propria sofferenza, per affiancare la varietà della sua esperienza a quella altrui, sentirsi accomunato, partecipare. D’altronde l’importante è sempre partecipare e sentirsi partecipi del reale, parrebbe suggerirci.

Scrivere d’amore innamorati della Parola è al pari di amare, e manifesta la conquista di un significato tra milioni, liberandosi al contempo del superfluo.

 

Matteo Bianchi

 

 

Marco Sanna, Diciannove carezze

EIF Orizzonti, 2013, pagg. 130, € 14,00


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