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Gianfranco Cercone. “Educazione siberiana” di Gabriele Salvatores: Amico mio, uccidimi!
13 Marzo 2013
 

C’è qualche elemento in comune tra C’era una volta in America di Sergio Leone ed Educazione siberiana, il nuovo film di Gabriele Salvatores, tratto da un romanzo di Nikolaj Lilin, su un clan di criminali russi. In entrambi i film si parla di due ragazzi cresciuti insieme, amici per la pelle, affiliati alla stessa banda. Quando uno dei due si dimostra un traditore, l’altro deve ucciderlo.

I film di gangster sono film di azione; e nei film di azione la psicologia dei personaggi tende a essere semplificata. Eppure questo momento è soggetto a una complicazione psicologica: il gangster che ha tradito, sembra desiderare, forse inconsciamente, di essere ucciso dal suo amico di un tempo. Attende la sua vendetta e perfino la provoca. Forse è disgustato di se stesso e per questo desidera morire. In ogni caso, si tratto di un’offerta in sacrificio del proprio corpo. Un sacrificio chiamato a suggellare un’amicizia intensa come una passione amorosa.

Nel film di Salvatores, la criminalità governa come uno Stato nello Stato una regione del Sud della Russia, dove dai tempi di Stalin, venivano deportati criminali di varie etnie. Ha un suo codice d’onore: ripudia l’uso e il commercio della droga e depreca l’avidità smodata di denaro. Certo, ruba e uccide; ma la violenza non è indiscriminata e si accompagna perfino, paradossalmente, al principio buddhista del rispetto per tutte le creature viventi!

Tale complesso contraddittorio di insegnamenti – ma anche di tecniche per uccidere – è trasmesso da un anziano capo di un clan a un ragazzo, suo nipote. Il capoclan è interpretato da un grande attore: John Malkovic. Il ragazzo è una rivelazione e si chiama Arnas Fedaravičius: nella sua compostezza, nel suo senso di dignità, nella sua durezza di pietra preziosa, sembra personificare la morale – una morale molto discutibile, ma una morale – che gli è stata impartita dal capoclan.

Certo, a guardarlo potremmo scambiarlo per uno studente di legge o di pianoforte. E viene da chiedersi: può essere che la brutalità, la pratica della violenza, non corrompa, non alteri una fisionomia? Ma il cinema tende spesso a idealizzare i gangster: li fa più belli, più levigati di come sono davvero. Forse, più che la realtà, rappresentano il sogno del crimine. E proprio nel senso della massima di Platone, secondo la quale i cattivi fanno quello che i buoni sognano di fare. E lo sapeva bene Sergio Leone quando diceva che i suoi film tiravano fuori “la cattiva coscienza” dello spettatore.

Comunque, un principio di corruzione si riscontra nel ragazzo quando si arruola nell’esercito russo. È allora che si metterà a uccidere con indifferenza e con disprezzo. Ma il vero degenerato è il suo grande amico. Il suo processo di corruzione inizia quando mette piede in un carcere russo. Uscito, si dà all’uso della droga, frequenta criminali senza codice d’onore e finirà per abbandonarsi a uno stupro di gruppo. Di qui il desiderio di essere ucciso. E cioè di un omicidio – o di un suicidio – purificatore.

Forse la contrapposizione dei due personaggi – il criminale “puro” e il criminale “degenerato” – è troppo chiara e troppo netta, un po’ schematica. Ma il meglio del film è nella pittura d’ambiente: momenti come una giornata trascorsa all’aperto sui cigli erbosi di un fiume, o una corsa sulle giostra in una piazza innevata, circondata dagli edifici uniformi creati dal socialismo reale - ma altri momenti si potrebbero ricordare - riescono a rendere veri i personaggi insieme all’ambiente che li circonda.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 12 marzo 2013)


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