Critico raffinato e acuto, allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, assistente di Marcel Carnè per L’amore e il diavolo (Les visiteurs du soir, 1942), documentarista di valore – si vedano in particolare Gente del Po (1943-47) e N.U. (1948) – Michelangelo Antonioni, nato nel 1912, esordì nel lungometraggio con Cronaca di un amore (1950) che, pur nei suoi limiti, già si opponeva a taluni canoni del neorealismo.
A celebrare il maestro ferrarese si è aperta nella sua città natale, a Palazzo dei Diamanti, fino al 9 giugno 2013 (catalogo Ferrara Arte), una grande mostra, a cura di Dominique Païni – già direttore della Cinémathéque Française –, organizzata dalla Fondazione Ferrara arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara-Museo Michelangelo Antonioni, in collaborazione con la Cineteca di Bologna, con il titolo “Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti”. La rassegna ripercorre la parabola creativa di Antonioni accostando i suoi lavori a opere di grandi artisti, come De Chirico, Morandi, Rothko, Pollock, Burri e Vedova, e offrendo un inedito e suggestivo dialogo tra film e pittura, letteratura e fotografia.
Venature politico-sociali, all’inizio del suo percorso creativo, sono presenti anche nei Vinti (1953), film in tre episodi, di cui soprattutto notevole quello ambientato in Inghilterra, in La signora senza camelie (1953) e Le amiche (1955), tratto da un romanzo di Cesare Pavese. Qui il neorealismo delle origini si sfalda in una rappresentazione che non ha trovato ancora una sua intrinseca ragion d’essere, ma sprigiona già grande originalità.
La crisi, grave e profonda, si ha dopo la metà degli Anni Cinquanta, e non è una crisi che colpisce soltanto Antonioni, ma la maggior parte dei registi italiani (e non italiani). Antonioni vi reagisce con un film in cui cerca di impostare il tema fondamentale della sua poetica, cioè la condizione dell’individuo in una società massificata, in termini radicalmente nuovi, sia nella costruzione del personaggio sia nella struttura drammatica dello spettacolo, Il grido (1957), variamente accolto dalla critica e disertato dal pubblico. Pur tra lacune e incertezze, quest’opera inconsueta e conturbante, lentamente si sviluppa lungo il tenue tracciato d’un racconto che non è altro che un viaggio verso la morte. Con L’avventura che può essere considerato il primo episodio di una tetralogia sulla condizione della donna nella società contemporanea, e più in generale della coppia, i cui altri episodi sono La notte (1961), L’eclisse e Deserto rosso (1964), quel linguaggio eminentemente figurativo, drammaticamente scarno, cadenzato su ritmi narrativi d’ampio respiro, trova un terreno estremamente fertile per una applicazione rigorosa. Il discorso esistenziale si fa sempre più scrupoloso, depurandosi delle scorie d’una drammaturgia che punta sulla psicologia dei personaggi, giungendo a volte alla stasi drammatica, alla «noia», come condizione esistenziale per cogliere dall’interno le contraddizioni dell’esistenza.
Primo esempio significativo del cosiddetto «cinema dell’alienazione», L’avventura, che descrive il caso banale della sparizione di una donna durante una crociera e le conseguenze che questo fatto provoca, tende a dilatare gli avvenimenti oltre i limiti consueti dello spettacolo sì da giungere a una sorta di contemplazione della realtà umana e naturale, da scoprire, a poco a poco, nelle sue implicazioni culturali più che sentimentali. La spietata analisi del comportamento individuale, che sottende un giudizio negativo sulla vita di relazione e una critica alle istituzioni della morale corrente, viene sviluppata da Antonioni nella Notte, una sorta di «spaccato» della vita di coppia borghese dai risvolti tragici; nell’Eclisse, il disincantato ritratto di un amore «impossibile», tra incontri e scontri senza fine, sullo sfondo di due differenti visioni del mondo; in Deserto rosso, in cui la «crisi dei sentimenti», nelle forme di una reale impossibilità a ristabilire autentici rapporti con gli altri, conduce a una totale inaridimento della coscienza. Questa crisi evolutiva si fece acuta a metà degli Anni Sessanta e provocò un mutamento d’indirizzo nel regista ferrarese, i cui risultati furono non soltanto di grande significato, ma furieri di ulteriori approfondimenti.
Da un racconto di Julio Cortàzar, Antonioni trasse nel 1967 Blow up, che si può tradurre tanto come «ingrandimento fotografico» quanto «esplosione».
La vicenda del giovane fotografo che ingrandendo una fotografia, scopre o gli pare di scoprire una realtà sconosciuta, misteriosa, probabilmente drammatica (un delitto?), acquista una chiara indicazione simbolica: la sua storia diventa la storia di ogni uomo, il suo fallimento, lo stesso fallimento dell’esistenza umana, costretta a «girare a vuoto» in un mondo incomprensibile, che rimanda continuamente ad altro. Zabriskie Point (1970), girato negli Sati Uniti, il cui filo conduttore è di una osservazione distaccata, fredda, analitica, racconta dall’«ingrandimento» degli atti consueti, dalla banalità quotidiana, all’«esplosione» multipla della casa sulla roccia, con lo sparpagliamento degli oggetti che invadono tutto lo schermo, immagine agghiacciante della società consumistica, con cui si chiude il film.
Questo cammino verso la chiarificazione dei problemi del reale e della sua interpretazione si conclude con Professione reporter. Forte di un esperienza documentaristica che ha portato alla straordinaria purezza rappresentativa di Ciung Kuo-Cina (1972), un ampio documentario televisivo girato in Cina, Antonioni sviluppa in questo film, contemporaneamente, il tema dell’incapacità dell’uomo di stabilire con la realtà un rapporto autentico, e quello dei limiti e delle funzioni del cinema come strumento di rivelazione e rappresentazione della realtà stessa.
Questa straordinaria carriera è raccontata, nelle sale espositive di Palazzo dei Diamanti a partire dal prezioso patrimonio di opere, oggetti e documenti relativi alla vita e al lavoro del regista di proprietà del Comune di Ferrara: i suoi film e documentari; le sceneggiature originali e le fotografie di scena, tra le quali spiccano quelle di Sergio Strizzi e Bruce Davidson; la biblioteca, la discoteca, gli oggetti personali e professionali che parlano delle passioni di Antonioni; l’epistolario, infine, intrattenuto con i maggiori protagonisti della vita culturale del secolo scorso, da Roland Barthes a Federico Fellini, da Andrej Tarkovsky a Giorgio Morandi.
Il percorso espositivo, articolato in nove sezioni, vede avvicendarsi un racconto cronologico e approfondimenti tematici su alcuni motivi chiave del lavoro del regista: le leggendarie nebbie della pianura padana, che ammantano gli anni della giovinezza di Antonioni e ritornano in molti dei suoi film, sono contrapposte alla luce abbagliante dei deserti aridi e polverosi delle pellicole della maturità; a loro volta, le visioni della metropoli moderna, spesso ispirate alla pittura metafisica, si alternano alle lucide premonizioni del disastro ecologico e della crisi finanziaria, sociale e ideologica che incombe sulla società dei consumi.
Maria Paola Forlani