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“Paradiso e Inferno” di Jón Kalman Stefánsson 
La vita umana come una gara contro il buio dell’universo
05 Marzo 2013
 

Jón Kalman Stefánsson

Paradiso e Inferno

Iperborea, 2011, pagg. 231, € 16,00

(Il romanzo è il primo di una trilogia; seguito da La tristezza degli angeli, del 2012, e da un terzo, di prossima pubblicazione)

 

La poesia può salvare la vita? I protagonisti di questo intenso romanzo di Stefànsson ne erano convinti, ma tale certezza sarà messa a dura prova, nelle loro esistenze.

Siamo in Islanda, verso la fine dell’Ottocento. Bárður è un giovane uomo intenzionato a cambiare la propria vita; un ultimo lavoro in mare, sui pescherecci a remi ancora attivi in quel Paese di gelo e arretratezze di quegli anni, e poi la ricerca di un altrove che offra condizioni più umane, possibilità di riscatto, un piccolo passo avanti, verso una vita più piena, verso l’amore sognato. L’amore a cui Bárður dedica letture appassionate che gli servono per poi restituirle in versi e altrettanto appassionate lettere alla sua donna amata. Solo le parole sono in grado di «consolarci e asciugare le nostre lacrime, sciogliere il ghiaccio che ci stringe il cuore», afferma questo pescatore poeta.

Sotto la sua ala protettrice Bárður ha accolto il Ragazzo. Così ci viene presentato e solo questo resterà il suo nome identificativo; un adolescente solo, senza più legami, se non quello di un fratello lontano, da cui è stato separato dopo la morte in mare del padre, allorché si è reso necessario per i due fratelli andare a guadagnarsi da vivere per aiutare la madre e la sorellina. Ma per le ultime due, tutto si è interrotto; troppe le privazioni e il dolore… Il Ragazzo è l’ombra di Bárður, ne condivide la vita, lo accompagna nelle dure giornate di lavoro, soprattutto da lui ha imparato l’amore per i libri, per la Poesia. È molto bravo a scrivere, il Ragazzo, e così viene richiesto dai compagni di lavoro che lo incaricano di comporre le lettere a casa, alle mogli, alle fidanzate.

Sì, la poesia può salvare le esistenze. Ma, quando soffia il gelido vento del Nord e quando si è in mare aperto nel pieno di una bufera, la vita ci tradisce ed ecco che si può morire per una cerata dimenticata nella baracca a terra. Dimenticata perché la testa è altrove, magari rapita dai versi di Milton e del suo Paradiso perduto.

È una storia di tragedia e di un faticoso ritorno alla vita, un’avventura iniziatica, un viaggio non solo metaforico verso una qualche risposta. Una risposta che si è disposti a far scaturire da profondità interiori sconosciute quanto indispensabili per non buttare tutto all’aria. Per non sacrificare ogni sogno: ciò che si è appena imparato con fatica a riconoscere come linfa di un’esistenza.

Il Ragazzo è distrutto, lo aiuta solo il compito che si prefigge di portare a termine in onore di Bárður. Costantemente avvertirà la lotta dentro si sé, fra il desiderio di soccombere e dichiararsi sconfitto, la pena di sapersi sopravvissuto e la volontà più forte di ogni altra cosa di aggrapparsi alla vita. Nel suo cammino incontrerà diverse persone, ognuna con una storia alle spalle, come è ovvio, ognuna in grado di portare ad una riflessione il Ragazzo. C’è la storia del capitano cieco Kolbeinn, «sempre di cattivo umore, come un pesce gatto», ma proprietario di una biblioteca di più di 400 libri, quale magnificenza, che Paradiso! Kolbeinn, che sapeva intendersi alla perfezione con Bárður, loro due a parlarsi per ore di parole e poesia. C’è la storia dell’affascinante quanto caparbia Geirþrúður, proprietaria della locanda del Villaggio, quella locanda vista da tanti come l’antro del diavolo, come l’Inferno, proprio per via di quella donna, arrivata in sposa ad un vecchio, ricco e solo, ben presto morto e dal quale aveva ereditato molti beni. La donna che saprà accogliere il Ragazzo e offrirgli una possibilità. C’è Brynjólfur, il possente capitano, alcolizzato, di un peschereccio che – lui sostiene – non lo vuole più… E c’è il miraggio di un amore che fa battere il cuore al Ragazzo: la giovane, quanto sfrontata, Ragnheiður, figlia di un maggiorente del Villaggio, quel suo mostrargli sfacciatamente la punta della lingua, al loro primo incontro. Un gesto che lo lascia senza parole, come uno stupido. Il gesto che lo fa innamorare perdutamente di lei.

Stefánsson ci racconta questa storia di fratellanza e di amore con una scrittura altamente poetica e nel contempo essenziale. In questo modo riesce a farci sentire sulla pelle il gelo del Grande Nord e i brividi di sentimenti forti e struggenti e a convincerci una volta di più di quanto si abbia «bisogno della letteratura, delle parole, non per sopravvivere, ma per vivere».


Annagloria Del Piano


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